Roni R., “La natura del tempo e l’intuizione della durata: Henri Bergson legge lo psicologo Victor Egger”


La natura del tempo e l’intuizione della durata: Henri Bergson legge lo psicologo Victor Egger

RICCARDO RONI

Introduzione
Lo psicologo francese Victor Egger (1848-1909) rappresenta un valido portavoce non solo della speculazione filosofica ma anche del viaggio diacronico del sapere pedagogico . Le sue ricerche – quasi completamente dimenticate – prendono avvio da uno studio di «psicologia descrittiva» della parola interiore, condotto nella sua tesi dottorale che discute il 9 dicembre del 1881, La parole intérieure. Essai de psychologie descriptive, nella quale vengono studiati dettagliatamente i rapporti tra il pensiero, la parola, la coscienza e il tempo come durata. In quest’opera Egger, partendo dall’analisi del linguaggio interiore secondo un approccio pedagogico socratico, orientato a valorizzare l’autonomia nella relazione, inaugura un’epistemologia innovativa della coscienza che anticipa, come vedremo in questo contributo, il tempo soggettivo di Bergson .

1. La parola interiore: un nuovo campo di indagine per la psicologia
Negli anni tra il 1860 e il 1880, in Francia, si susseguono, secondo orientamenti teorici differenti – dalla medicina (Broca), alla filosofia (Taine), alla linguistica (Émile Egger) – molteplici studi dedicati all’indagine del linguaggio interiore, alcuni dei quali – basti pensare ai lavori del medico Adrien Proust, padre di Marcel (De l’Aphasie, 1872) – mettono in evidenza l’incitazione motrice involontaria o spontanea della parola riscontrabile nei pazienti afasici . Rispetto a questi orientamenti teorici, Victor Egger intende mettere in luce – contro ogni scientismo oggettivante e su una linea opposta anche alla nuova psicologia di Ribot – il legame significativo che intercorre tra un’attività psichica regolare e la verbalizzazione interna . Per queste ragioni, nel corso degli anni Ottanta, lo studio descrittivo di Egger sulla parola interiore diventa un bersaglio polemico, suscitando le critiche di Jean-Martin Charcot e dei suoi allievi . Ad attirare l’attenzione di Egger è il fatto che l’anima, la psiche, in ogni istante, parla interiormente il suo pensiero come in un grande «monologo interiore» . Tra gli antichi Socrate è stato il primo osservatore sereno della parola interiore: egli fu «un originale» , scrive Egger, e la sua fiera ironia ne fa l’opposto di un malinconico . Egger considera questo monologo interiore della coscienza come uno tra gli aspetti più importanti della vita psicologica. Egli descrive così la parola interiore:

É debole e monotona. Essa è dunque come un suono molto debole, come un mormorio; questo suono non ha niente che possa servire a risvegliare e catturare l’attenzione, e tuttavia, per quanto possa essere debole e poco vario, lo sentiamo sempre distintamente, perché ci interessa, e abbiamo preso l’abitudine di ascoltarlo. Ma può anche – dipende dai pensieri che avviluppa – essere solo sentito, ad esclusione delle cose viste e toccate, degli odori, dei sapori e delle sensazioni interne che gli sono simultanee .

L’interiorità viene rappresentata da Egger come il teatro di un linguaggio arcaico: la serie delle parole interiori forma infatti «una successione quasi continua», la quale conserva, da sola, una porzione considerevole della coscienza di ciascuno di noi. La parola interiore «è una cosa nostra», dice Egger, è silenziosa e si rivela soltanto a noi stessi, ad esempio durante la lettura in silenzio oppure durante la scrittura:

Non esiste scrittura senza parola; la parola detta, la mano obbedisce; ora, per la maggior parte del tempo, quando scriviamo, l’unico suono percepito è quello della penna che corre sul foglio; la parola che detta non si sente; eppure essa è reale; ma il rumore che produce non è l’orecchio a sentirlo, è la coscienza a conoscerlo; esso non muove l’aria che ci circonda, resta immobile in noi; non è la vibrazione di un corpo, è una modalità di essere me stesso. Questo rumore è realmente una parola; ne ha l’andatura, il timbro, il ruolo; ma è una parola interiore, una parola mentale, senza esistenza oggettiva, estranea al mondo fisico, un semplice stato dell’io, un fatto psichico .

Il suono interiore di questa parola non lo percepisce l’orecchio, bensì la coscienza, poiché la parola interiore testimonia il rapporto di profonda intimità che l’io ha con se stesso. Si tratta dunque di una parola che si rivela come un suono estraneo al mondo fisico, come un semplice stato dell’io:

Eppure, qualche volta, questa parola interiore che accompagna sempre la riflessione solitaria, possiamo conoscerla: è la sera, quando la lampada è spenta, quando abbiamo rinunciato per un momento all’attività riflessiva, all’intelligenza ragionevole, alla coscienza .

Secondo Egger questa parola è un «ausiliario del pensiero» che non ci abbandona mai e che rende persino superflua la parola esteriore; la lettura a bassa voce o in silenzio, la scrittura, la meditazione, o piuttosto la passeggiata solitaria nella quale o si è abbandonati completamente ad un «sogno ad occhi aperti», la rêverie, oppure non si pensa a niente, sono tutte pratiche in cui, abbandonati completamente a noi stessi, parliamo senza saperlo:

L’uomo che legge o scrive in solitudine, a dire il vero, non è solo; un libro è un amico che ci parla e che ascoltiamo con attenzione; anche il foglio al quale confidiamo il nostro pensiero è un amico, un amico discreto e umile, un confidente paziente che ci ascolta; quando siamo dunque realmente soli, molto spesso tacciamo, sia per prudenza, sia per fatica, sia semplicemente perché parlare ci sembra inutile; parlare in effetti è inutile, poiché la parola, questo prezioso supporto del pensiero, non ci abbandona se noi crediamo di rinunciarvi; ma allora essa resta in noi, e nessun altro all’infuori di noi può ascoltarla .

Questo dialogo con se stessi è una forma di memoria che rivela il senso segreto dell’universo . Egger tornerà in più occasioni sull’importanza del ricordo di sé che dura nel tempo, come ben attestano anche i suoi studi pionieristici sull’«io dei morenti»:

Colui che muore lentamente e che ha avuto tempo di prepararsi alla morte, ha avuto il tempo di definirsi per se stesso, per i suoi eredi, per la posterità; allora egli pronuncia parole testamentarie. […] Del resto, si può fare il proprio testamento senza un vivo sentimento interiore dell’io, sentimento che spesso si trova espresso felicemente nello scritto destinato a prolungare, al di là della tomba, l’efficacia del volere che va cessando? E quelli che impiegano i loro ultimi anni a scrivere Memorie, raccontando quello che hanno fatto e pensato, quello che hanno visto e udito, che cosa fanno se non raccontare il loro io, ed esprimendolo molto spesso più per la posterità che per se stessi? .

L’io che scorre è infatti animato da «un sentimento sintetico della vita passata» , mentre l’io più vivo, spiega Egger, «affiora necessariamente nella coscienza di colui che prevede la morte con rammarico, senza poterla evitare» . Grazie alla memoria l’io rivive continuamente e non cessa mai di essere inteso fino all’ultimo istante di vita, in cui può verificarsi persino un potente «afflusso di ricordi» ; perché in caso contrario, osserva Egger, l’io «si dissolverebbe nell’oblio, nella noia, nell’incoscienza» e l’anima mostrerebbe di essere soltanto «un’astrazione senza ricordi e senza gioie» . La parola interiore, che testimonia a noi stessi l’«io vivo» che scorre, mette così a nudo nel modo più completo l’attività creativa dell’immaginazione fantasticante. In questo monologo interiore della coscienza si può dire di tutto e in tutti i modi:

Nella parola interiore è sufficiente che si venga compresi da se stessi; possiamo dunque parlare molto piano, molto velocemente, in modo poco distinto, abbreviare le frasi, sostituire modi ed espressioni abituali con altre più semplici o più espressive secondo il nostro gusto, modificare la sintassi, arricchire il vocabolario con neologismi o prestiti da lingue straniere; possiamo esprimere a noi stessi la sfumatura tutta personale dei nostri sentimenti con termini di cui creiamo il senso a nostro piacimento, rappresentarci frammenti considerevoli del nostro passato o aprire prospettive sul nostro avvenire con espressioni brevi che devono ad una tacita convenzione stabilita con noi stessi forza e ampiezza di significazione. Il linguaggio interiore è una cosa nostra; lo usiamo secondo la nostra fantasia; più si adegua e si conforma al nostro umore e meglio è .

In modo pressoché analogo si esprimerà Vygotskij:

Ogni parola nel suo uso interiore acquista a poco a poco sfumature, gradazioni diverse, che addizionandosi e sommandosi si trasformano in un significato nuovo della parola. […] Nel linguaggio interno possiamo esprimere sempre tutti i pensieri, i sentimenti ed anche i ragionamenti profondi tutti interi con una sola denominazione. E, certamente, il significato di questa denominazione unica per dei pensieri, dei sentimenti e dei ragionamenti complessi non è traducibile nella lingua del linguaggio esterno, non è comparabile col significato abituale di questa stessa parola .

Sul fronte opposto, il linguaggio udibile, la lingua, è destinata a restare come in Bergson uno «strumento della società» . Un altro tema affrontato da Egger – rispetto al quale lo stesso Bergson, già a partire dagli anni in cui lavora al Saggio sui dati immediati della coscienza (1883-1887), si dimostrerà un brillante interprete – consiste nel rapporto della coscienza con lo spazio:

Si potrebbe dire che l’anima è venuta all’esistenza con un odio innato contro l’estensione: piuttosto che riconoscerla in sé, essa rinuncia a conoscersi bene, rifiuta di vedersi nei modi estesi in cui va dispersa una parte del suo essere; l’estensione è una parte di sé, ma sta proprio lì, così essa crede, la sua imperfezione; non potendo purificare la sua natura, essa si concentra in idea nella pura durata (dans la pure durée); si impoverisce mediante una finzione e riesce ad apparire a se stessa non come è realmente, ma come vuole essere .

L’io, che è una «pura successione», e la durata sono dunque due dimensioni strettamente collegate tra loro:

L’anima non si nega alcuno stato senza constatarlo o dichiararlo esteso; il non-io e la spazialità sono per lei due idee assolutamente correlative e quasi i due aspetti di una sola e medesima idea; dall’altra parte, l’io e la durata senza estensione non possono concepirsi l’uno senza l’altra .

Partendo da questo assunto, Egger arriva a delineare un altro nucleo della sua psicologia, ossia la diade concettuale di un io «implicito» (inesteso, e dunque inserito nel flusso continuo della durata) e di un io «esplicito» (esteso, e dunque localizzabile nello spazio):

L’io implicito è associato all’idea tutta negativa dell’inesteso; l’io esplicito è associato all’idea positiva della successione o della durata. E non è tutto; all’idea di io il riconoscimento aggiunge una determinazione importante: l’io diviene l’essere il cui modo d’essere si riproduce, il cui presente ripete il passato: all’idea positiva della successione si aggiunge un’idea ancora più positiva, quella della ripetizione o dell’abitudine. L’io è ciò che scorre, ciò che passa o è passato, ma che, una volta passato, spesso, ridiventa presente .

L’io implicito corrisponde dunque a ciò che sento come «mio», con «calore e intimità» direbbe James, e risulta dall’assenza di percezione esterna, mentre l’io esplicito deriva dal riconoscimento e ripete il passato fino a costruire abitudini che durano nel tempo.

2. La pedagogia di Egger
Sulla base di questi assunti psicologici, Egger descrive il passaggio del pensiero dalla «sfera invisibile della coscienza» a quella manifesta e riconoscibile del mondo esterno: il suono diventa «lo strumento della vita psichica collettiva» e «il vincolo della società umana» , aspetto che consente di valorizzare l’idea di dialogo tra pratiche e voci, un dialogo in cui l’elemento culturale attiene più al motivo acustico che all’immagine, in modo tale che il significato dei suoni possa favorire una continua interazione, creazione e ri-creazione tra i soggetti . Egger propone dunque un modello dinamico di identità che comporta la trasformazione dell’individuo in funzione del cambiamento sociale. Il segno interiore diviene un segno esteriore, strumento della società: si passa dal monologo al dialogo, al linguaggio fatto di repliche e reazioni. Così, il desiderio di esprimere al di fuori un nostro pensiero può avvalersi della metafora, come suole accadere agli «innovatori in politica e soprattutto in religione» , quando essi vogliono «volgarizzare senza indugio delle novità che a loro appaiono utili a tutti» . In tutti questi casi, le personalità ben fatte sanno mantenere in una correlazione rigorosa le azioni dell’attenzione e dell’abitudine. L’attenzione è infatti «preventiva» e consiste «in una resistenza continua allo svanimento progressivo della coscienza» . L’abitudine, invece, la quale contraddistingue l’esistenza sociale, è come «l’estinzione graduale del fuoco attraverso la combustione» . Accade così che l’abitudine individuale «non fa che aggravare un male già reale e confermare gli effetti dell’abitudine collettiva dell’ambiente [milieu] che ci circonda» . Lungo questo vettore, quando, ad esempio, seguiamo passivamente l’esempio degli educatori, molte idee ci finiscono in testa a nostra insaputa come degli assiomi insindacabili. Se, per un verso, il senso comune è «una mescolanza di verità preziose e di pregiudizi» , le abitudini delle parole, spiega Egger, «hanno creato in noi delle abitudini di pensiero, alla fissazione delle quali la nostra personalità non ha preso alcuna parte» . Egger guarda con sospetto al fatto che ciascun pensiero individuale si modelli automaticamente sull’immagine del pensiero collettivo, giacché teme il facile radicamento dei pregiudizi, di fronte ai quali occorre «possedere una grande forza di riflessione, una rara potenza d’analisi e di comparazione, una personalità intellettuale energica e infaticabile» .

Ancorché in società sia più difficile restare spiriti liberi, l’attitudine a pensare con la propria testa resta comunque il miglior antidoto al «prestigio pigro della moda e del pregiudizio» , contro la facile sottomissione alle idee «di una piccola setta, indipendente a colpo sicuro rispetto ai gruppi sociali più vasti che la circondano, ma ostile ad ogni individualismo, a qualsiasi indipendenza interiore» . Egger dichiara che il «buon senso» e la «moda» «si spartiscono, in proporzioni variabili secondo i tempi e le circostanze, il dominio dell’opinione comune» , e per poter separare «nell’apporto del senso comune l’oro e la sabbia, confermare il buon senso con un’adesione motivata, smuovere e sradicare i pregiudizi, occorre possedere una grande forza di riflessione, una rara potenza d’analisi e di comparazione, una personalità intellettuale energica e infaticabile» . Una «buona pedagogia», conclude Egger, mostra infatti che la traduzione, e soprattutto la traduzione studiata, la versione, «è l’agente per eccellenza dell’educazione dello spirito» , poiché «invita l’intelligenza a staccarsi dalle abitudini del linguaggio usuale» .

3. Pensiero e parola secondo Bergson
Anche Bergson si pone sulla stessa linea teorica di Egger, mettendo in evidenza gli stati qualitativi della coscienza e il suo linguaggio profondo, intensivo. Bergson riconosce espressamente che la durata pura si esprime mediante un monologo interiore:

Ora, credo proprio che tutta la nostra vita interiore sia come un’unica frase avviata fin dal primo risveglio della coscienza, frase disseminata di virgole, ma in nessun luogo interrotta da punti .

Nella seconda conferenza di Oxford del 1911, Bergson descrive così il «mormorio» della vita profonda:

Quando ascoltiamo una melodia, abbiamo l’impressione di successione più pura che possiamo avere. […] Riconosco del resto che è nel tempo spazializzato che noi ci poniamo abitualmente. Non abbiamo alcun interesse ad ascoltare il ronzio (bourdonnement) ininterrotto della vita profonda. E tuttavia la durata reale è là. Grazie ad essa prendono posto in un solo e medesimo tempo i cambiamenti più o meno lunghi ai quali assistiamo in noi e nel mondo esteriore .

E ancora:

Il mio presente, in questo momento, è la frase che sono occupato a pronunciare. Ma solo perché mi piace limitare alla frase presente il campo della mia attenzione. L’attenzione può allungarsi e accorciarsi, come l’intervallo tra i due punti di un compasso. Per il momento, i punti si allontanano abbastanza per andare dall’inizio alla fine della mia frase. Ma, se avessi voglia di allontanarli ulteriormente, il mio presente abbraccerebbe, oltre alla mia ultima frase, quella che la precedeva: mi sarebbe sufficiente adottare un’altra punteggiatura. Procediamo oltre: un’attenzione che fosse indefinitamente estensibile terrebbe sotto il suo sguardo, con la frase precedente, tutte le frasi anteriori della lezione, gli avvenimenti che hanno preceduto la lezione e una porzione, grande quanto si vorrà, di ciò che chiamiamo il nostro passato .

Tra gli interpreti di Bergson, Alexis Philonenko ha messo in evidenza le implicazioni pedagogiche della sua speculazione ; analogamente, anche Dominique Maingueneau, ha mostrato che lo stile di Bergson è pedagogico proprio grazie al monologo della coscienza, al tempo presente che generalizza, alla prima persona del plurale che include il lettore e al suo stile parlato . E, non da ultimo, all’uso della metafora . Bergson, lettore di Egger (nel Saggio focalizza l’attenzione sulla capacità della coscienza di «dire a se stessa ciò che pensa» e sul fatto che «ascoltare significa parlare a se stessi» ), considera infatti la parola interiore, ovvero il polo temporale del linguaggio, in funzione del tempo. Perché pensare sub specie durationis significa esprimersi poeticamente . Se la parola assolve all’umile compito dello spirito di «legare i successivi momenti della durata delle cose» , l’io spazializzato resta altresì immerso in un’altra corrente, anch’essa molto eterogenea: la «corrente della vita sociale» che è vincolata alla lingua, al polo spaziale del linguaggio . Malgrado la nostra «seria decisione» di restare immersi nella pura durata della parola interiore, poetica e artistica, Bergson ammette, con una buona dose di realismo pedagogico, che questi momenti di libera intimità in cui viviamo soltanto per noi stessi sono sempre più rari. Ragion per cui il compito dell’educatore che persegue un atteggiamento socratico, consiste nel provocare un risveglio, motivando alla ricerca della verità, innescando un processo di progressiva interiorizzazione. Ciò non è solo una questione di «buon senso» , perché per potersi sottrarre definitivamente alle esigenze della vita sociale, occorrerebbero decisioni estreme specchio di pensieri limite, «momenti unici nel loro genere, che non si riprodurranno più di quanto non ritornino le fasi scomparse della storia di un popolo» .

Si profilano così due livelli comunicativi in Bergson: il primo è superficiale, quello della persona, veicolato dalla parola esteriore, ossia dalla lingua; il secondo, invece, quello della personalità, è solo apparentemente udibile perché corrisponde ad un discorso continuo, specchio fedele della durata pura.

Spezzando gli schemi della lingua, Bergson dà voce al mormorio di un vissuto intimo che nella vita vigile può assumere la forma di una rêverie, di un sogno ad occhi aperti, come accade al protagonista di Le Nabab di Alphonse Daudet – Monsieur Joyeuse – tratteggiato da Egger come un homme d’imagination , il quale, suscitando il riso delle moltitudini, si aggira per le strade di Parigi «rivolgendo la sua parola interiore, capricciosa ed errabonda quanto il suo vagabondare, ad un ipotetico interlocutore» .

Sulla base di questi riscontri, è possibile rileggere la riflessione di Bergson a partire dal Saggio come orientata a dar voce al linguaggio intensivo dell’io profondo – il «ronzio» della durata, come abbiamo appena visto – che non resta pertanto inespresso, perché la parola interiore, con le sue voci e il suo stile un po’ arcaico, consente alla persona di esprimere a se stessa, come in un grande monologo, il flusso ininterrotto di un pensiero vivente.

Questo monologo della coscienza rappresenta in Bergson proprio il medio comune tra le diverse soggettività di per sé ineffabili . Il linguaggio, in questo senso, non è solo performativo di un’esperienza socialmente ed esteriormente condivisa, non parla soltanto delle cose e alle cose del mondo, ma rappresenta, anche e prima di tutto, l’intesa, implicita in ogni relazione intersoggettiva, del non-ancora-detto che scaturisce dalla sfumatura percettiva dell’individualità. Come scrive esplicitamente Bergson nella seconda introduzione a Pensiero e movimento, la nostra vita intera, «dal primo risveglio della nostra coscienza, è qualcosa come questo discorso indefinitamente prolungato. La sua durata è sostanziale, indivisibile in quanto durata pura» . Da questi passaggi importanti dell’indagine bergsoniana vediamo come egli identifichi proprio in questo linguaggio profondo e segreto – ma continuo esattamente come la durata pura – il processo in cui la parola e il pensiero entrano in una relazione dinamica, secondo uno scambio reciproco come accade nel dialogo socratico tra docente e allievo.

H. BERGSON, Pensiero e movimento, cit., p. 67.

Categoria: Conferenze accademia Rivista n°5 01/2017 | RSS 2.0

Mappa sito - Privacy Policy - Credit - Termini d'uso - Cookie Policy

Rinnova o modifica la tua autorizzazione ai cookie