Cecchetti R., “Titoli e Nobiltà nell’Impero Ottomano”


 

Titoli e Nobiltà nell’Impero Ottomano

Raffaello Cecchetti

 

Con la fine del Sultanato Selgiuchide di Rum (1300 circa), l’Anatolia si frantumò in una moltitudine di Stati indipendenti, i Beylicati turchi ( in turco: Anadolu Beylikleri, turco ottomano: Tevâif-i mülûk). A quell’epoca l’Impero Romano d’Oriente, indebolito, aveva perso molte delle province anatoliche a vantaggio dei Beylicati. Uno di essi si trovava nella zona di Eskişehir, nell’Anatolia occidentale, ed era governato dal Bey Osman I (da cui deriva la parola “ottomano”), figlio di Ertuğrul. Nel mito della fondazione conosciuto come Sogno di Osman, narrato nella storia medievale turca, il giovane Osman è ispirato dal sogno premonitore di un grande impero, rappresentato da un grande albero le cui radici si espandono in tre continenti e i cui rami coprono il cielo; dalle radici si diramano quattro fiumi: il  Tigri, l’Eufrate, il Nilo e il Danubio, e l’albero fa ombra a quattro catene montuose: il Caucaso, il Tauro, l’Atlante, e i Balcani. Una vera e propria visione, in base alla quale però, durante il suo regno come Sultano, Osman I estese le frontiere del suo impero fino ai margini di quello bizantino.

Nacque così l’Impero Ottomano o Sublime Stato Ottomano, (turco ottomano: دَوْلَتِ عَلِيّهٔ عُثمَانِیّه,Devlet-i ʿAliyye-yi ʿosmâniyye ; turco moderno : Osmanlı Devleti o Osmanlı İmparatorluğu), che che durò 623 anni, dal 1299 al 1922.

Nel secolo successivo alla morte di Osman I, il dominio ottomano cominciò a estendersi sul Mediterraneo orientale e sui Balcani. Il figlio di Osman, Orhan I, conquistò la città di Bursa nel 1324 e la rese nuova capitale dello Stato ottomano. La caduta di Bursa implicò la perdita del controllo bizantino sull’Anatolia nordoccidentale. E dopo Bursa, nel 1337, fu conquistata Nicomedia. Poi, nel 1354 gli ottomani superarono lo stretto dei Dardanelli e si espansero nella “Rumelia”, conquistando Adrianopoli (1361), che divenne la nuova capitale dell’Impero, Sofia (1386) e Salonicco, togliendola ai Veneziani nel 1387.

In questo periodo fu creato un governo ottomano formale, le cui istituzioni sarebbero cambiate molto nel corso della vita dell’Impero.

La vittoria ottomana in Kosovo nella battaglia della Piana dei Merli (Kosovo Polije) segnò il declino dell’Impero serbo, e la fine del suo controllo sulla regione, aprendo la strada all’espansione ottomana in Europa. A essa seguì la conquista del Regno di Bulgaria nel 1393 , grazie alla quale gli ottomani arrivarono a minacciare l’Ungheria. Il Re ungherese Sigismondo tentò di fermarli ma nel 1396 fu sconfitto nella battaglia di Nicopoli, ritenuta l’ultima Crociata su larga scala del Medioevo, anche se non combattuta in Terra santa. Con l’espansione del dominio turco sui Balcani, la conquista di Costantinopoli divenne un obiettivo cruciale.

Il figlio di Murād II, Maometto II, detto poi Fātiḥ (conquistatore), riorganizzò lo Stato e l’esercito, dopo la sconfitta subita dagli Ottomani quando Tamerlano invase l’Anatolia e, nella battaglia di Ancyra del 1402, fece prigioniero il Sultano Bayezid I Yildirim (la Folgore). Maometto II dimostrò poi la sua abilità bellica conquistando a 21 anni Costantinopoli, il 29 maggio 1453. Fu il crollo definitivo dell’Impero Romano d’Oriente.

La conquista ottomana di Costantinopoli nel 1453 rinforzò la posizione dell’ Impero, ritornato ora grande come prima della battaglia di Ancyra , come principale potenza dell’Europa sudorientale e del Mediterraneo orientale. Maometto II permise alla Chiesa Ortodossa di mantenere la sua autonomia e le sue terre in cambio dell’accettazione dell’autorità ottomana. A causa delle cattive relazioni esistenti tra l’Impero bizantino degli ultimi periodi e gli Stati dell’Europa occidentale, la maggioranza della popolazione ortodossa accettò il dominio ottomano, preferendolo a quello veneziano.

Egli poi perfezionò, come strumento essenziale dell’Impero il sistema dei Millet, (‘in arabo : ملة‎, milla ovvero “confessione religiosa”) termine con il quale si indicavano quelle comunità religiose dell’Impero che godevano di una serie di diritti e di prerogative nel quadro del sistema istituzionale complessivo dell’impero. Più precisamente, il sistema dei millet costituiva una forma perfezionata e con influssi bizantini dell’istituto islamico della dhimma, applicato nell’Impero Ottomano fino al XIX secolo. Con dhimma si intende un “patto di protezione” contratto tra non musulmani e un’autorità di governo musulmana. Lo status di dhimmi (in turco zimmi) era in origine riferito solo all’ Ahl al-Kitab (“Gente del Libro”), cioè agli ebrei e cristiani, ma in seguito fu esteso anche agli zoroastriani e mandei, e infine agli indù, ai sikh, e ai buddhisti.
I dhimmi godevano di maggiori diritti rispetto ad altri soggetti non-musulmani, ma di minori diritti legali e sociali dei musulmani.

Le comunità religiose riconosciute infatti godevano di una giurisdizione autonoma nell’ambito dello “statuto personale” (diritto di famiglia e delle successioni), mentre le autorità religiose (Patriarchi cristiani, Gran Rabbino di Costantinopoli), godevano di alcune potestà normative e giurisdizionali oltre che di una funzione di rappresentanza politica della propria comunità nei confronti del Sultano e della sua amministrazione. Gli appartenenti ai Millet pagavano un tributo, ma erano esentati dalle decime e dal servizio militare.

I Millet originari furono tre: quello dei Rum ( e cioè i Romani, vale a dire i Romani Orientali) di cui era responsabile ( dal 1453) il Patriarca Ortodosso di Costantinopoli, quello degli Armeni, di cui era responsabile il Patriarca Armeno di Costantinopoli (dal 1461), e quello Ebraico, di cui era responsabile   il Gran Rabbino di Costantinopoli.

La struttura amministrativa all’interno del grande Impero era dominata dal Sultano, che aveva come Primo Ministro il Gran Visir ( Vezir-i a’zam o Sadr-i-a’zam).

Questi era anche il Presidente del Consiglio di Stato, il Dîvân-i humâyûn , che era composto dai principali funzionari di vertice ovvero: il Vezir-i a’zam o Sadr-i-a’zam e cioè, appunto, il Gran Visir (responsabile per gli affari politici), il Ni-Shangi , il Segretario del Consiglio (responsabile della Cancelleria), il Kadi asker di Anatolia (responsabile giudiziario dell’Anatolia ), il Kadi asker di Rumelia (responsabile giudiziario dei territori ottomani nel continente Europeo, e cioè della Rumelia ), il Deftderdar  (responsabile del Tesoro), il Kapudan Pascià (Grande ammiraglio della flotta ottomana), e due o tre Kubbealtı vezirler ( Visir della Cupola), che rivestivano funzioni di ministri.

Come già detto il Divan, che era al tempo stesso Governo e Supremo tribunale dell’Impero,   veniva presieduto dal  Gran Visir o, in origine, dallo stesso Sultano. I membri del Divan erano dotati di una particolare immunità in base alla quale non potevano essere perseguiti nell’esercizio delle proprie funzione da nessun’altra autorità che non fosse lo stesso Sultano. Diversamente erano sottoposti alla giurisdizione dei Tribunali ordinari in materia civile.

Il governo dell’Impero era anche definito della Sublime Porta (in turco Bab-ı Ali), ossia Porta Superiore o Suprema): il nome deriva dal portone ( tuttora esistente), situato a Istanbul nelle immediate vicinanze del Topkapi , che conduceva al quartier generale del Gran Visir, dove questi teneva la cerimonia di benvenuto per gli ambasciatori stranieri.

Il Sultano era coadiuvato nelle funzioni di governo da personale amministrativo e militare ben addestrato e, soprattutto, da lui direttamente dipendente. Quasi sempre, infatti, i funzionari venivano reclutati tra gli “schiavi del Sultano” (Kapi kullari, lett. Schiavi della Porta): si trattava di giovani cristiani catturati nel corso delle conquiste o delle razzie, ovvero provenienti dal “tributo del sangue”, o “raccolta”, convertiti alla fede islamica e poi arruolati nell’esercito o inseriti nei quadri amministrativi. Dopo la conquista di Costantinopoli, la residenza ufficiale dei sultani turchi fu il grandioso palazzo del Topkapi a Istanbul. Alla sfarzosa corte ottomana erano presenti molti eunuchi ( retaggio di tradizioni della corte bizantina) , che erano per lo più nord africani che ricoprivano importanti cariche di palazzo come il Kapi Agha  (in turco: Kapı ağası, “Agha  della Porta”), formalmente denominato l’Agha della Porta della Felicità (Bâbüssaâde ağası) capo degli eunuchi bianchi a servizio nel Palazzo, e il Kizlar Agha (turco ottomano  قيزلر اغاسی‎, turco : Kızlar Ağası, “Agha delle Ragazze” ), formalmente denominato l’Agha della Casa della Felicità (in turco: Darüssaade ağa), capo degli eunuchi neri a servizio nell’Harem.

Gli eunuchi potevano ricevere gradi civili, ma non potevano ricevere e portare i titoli di Efendi, Bey o Pascià , titoli di cui parleremo più oltre.

Il territorio dell’Impero ottomano era frazionato in 21 regioni, governate da 21 Pascià , che avevano sotto di sé   250 Bey . Importanti elementi dell’Impero erano i Giannizzeri, di cui parleremo, sorta di pretoriani, una fanteria d’élite, caratterizzato dal suo precoce uso dell’artiglieria, che sindacò talora pesantemente con le sue prese di posizione la vita politica dell’Impero.

Fino al XX secolo l’Impero era suddiviso nei tre grandi territori di Europa, Asia e Africa, governati da un Beylerbeyi d’Europa e uno d’Asia; questi erano suddivisi in Province (Elayet) a sua volta distinte in governi dei Pascià (Pascialati, in turco Pashalik) e dei Sangiaccati (Sangiak in Europa e Liwa in Asia) con a capo i Sangiak Bey.   Essi erano governatori militari con diritto di bandiera (sanjak) concesso dal Sultano. La capitale Istanbul costituiva un distretto separato, governato direttamente dal Divan.

Questo sviluppo storico ci fa capire come nell’Impero Ottomano possano essere individuate tre forme di nobiltà: quella definibile come ottomana, quella greca (o fanariota, dal quartiere di Istambul -Fanar-dove era concentrata), derivante dall’antica aristocrazia romano orientale, e la nobiltà “straniera” trapiantata da altri Stati.

Elementi della Grecia antica, di Roma e di Bisanzio erano infatti diventati una componente non trascurabile dell’ Islam ed erano stati trasmessi ai Turchi come parte della loro eredità , permettendo la nascita di forme sociali derivate. Non a caso gli autori hanno parlato dei rapporti fra bizantini e ottomani come quelli fra freres ennemis :lo stesso clero ortodosso realizzò una sostanziale alleanza con la struttura dello Stato ottomano.

“Nicolas Iorga scriveva, con grande lucidità, che non furono i Turchi ottomani a portare con loro, come vuole il nazionalismo, un nuovo sistema di vita, ma l’Impero, con tutto quello che aveva di ideale,che trasformò, giorno dopo giorno, la mentalità ed i costumi”.

Come nell’Impero bizantino, la nobiltà turca è fondamentalmente di origine amministrativa e militare: è la nobiltà di carica, più o meno ereditaria in funzione della capacità della famiglia di mantenersi nelle grazie del Sultano e nel mantenere, nonostante l’inesistenza della primogenitura e della proprietà in senso tecnico, un patrimonio sufficiente.

Un sistema “quasi feudale” basato su feudi militari (Timar) e redditi derivanti da fondazioni pie (Vakif) permetteva un certo mantenimento nel tempo di questa élite di origine amministrativa.

Già agli inizi dell’Impero Ottomano si nota, per la prima volta nella storia islamica qualche cosa che si avvicina ad una aristocrazia ereditaria, la classe degli Askerler, i militari, che ricomprendeva i Giannizzeri ( Yeniçeri,), i Cavalieri (Siphai ) e i componenti gli eserciti provinciali, fra i quali si distinguevano Akindji, cavalieri leggeri, incaricati di incursioni e saccheggi nei territori nemici, derivanti dai cavalieri delle antiche dinastie principesche anatoliche.

Gli Ascherler, secondo la legge, godevano di una giurisdizione speciale ,quella dei Kadi-asker, giudici degli Askerler ed avevano esenzioni rispetto ai sudditi ordinari che non potevano portare armi, circolare a cavallo o possedere dei feudi.

Un elemento significativo del sistema ottomano era che la distinzione tra un Asker e gli altri soggetti non si basava mai su criteri etnici o religiosi; certi sudditi della piccola nobiltà militare cristiana dei Balcani poterono essere incorporati tra gli Askerler ottomani e ricevettero dei feudi ,dal Sultano, anche senza aver abiurato.

Così si creò progressivamente una categoria militare privilegiata, che godeva di uno status dovuto alla nascita ed agli antenati, vera innovazione, di origine greco-europea, che penetrò il sistema sociale e militare ottomano.

Oltre agli Askerler un altro esempio, ancora più importante, di categoria privilegiata fu quello degli Ulema, i dottori e giudici della legge coranica.

Gli Ulema erano quasi una “casta”: essi controllavano la legge, la giustizia, la religione e l’educazione; godevano di dispensa dalle imposte, ed, a differenza dei funzionari, “schiavi della Porta”, potevano trasmettere i loro beni ed anche il loro status professionale di generazione in generazione.

Questi controllavano pure i forti redditi dei vakif e cioè le fondazioni pie, più o meno religiose, di cui parleremo.

Ma una vera casta anche in questo caso non si formò: figli di ufficiali ed anche di persone di umile origine poterono entrare come Ulema grazie alle loro scuole; infatti , l’educazione, nonostante non fosse diffusa, era sovvenzionata ed aperta.

In qualche modo a capo degli Ulema era lo Sheikh-ul-Islam, leader della ” comunità scientifica” (ilmie) composta in primo luogo dagli Ulema.

Nell’Impero Ottomano i rappresentanti della ilmie avevano competenza nei campi della legislazione, della produzione legislativa, dell’organizzazione dello Stato, mantenendo una importante posizione nella burocrazia statale. Così come il Gran Visir, anche lo Sheikh-ul-Islam (Shaykh al-Islam, Sheikhul Islam, Shaikh al-Islam, Şeyhülislam) era nominato dal Sultano e condivideva con il primo il più alto livello a corte; entrambe comparivano assieme nelle cerimonie.    Lo Sheikh-ul-Islam cercò sovente di attribuirsi il compito di controllare se i provvedimenti del Sultano erano conformi alla Shari’a e cioè alla legge divina; fu abolito dal governo turco dopo l’avvento della Repubblica.

Si è accennato agli “schiavi della Porta” (kapi kullari). Questi erano il frutto del cosiddetto “tributo del sangue” o “raccolta” (devshirme).

Il tributo di sangue sistema utilizzato dalla seconda metà del XIV secolo per assicurare il regolare reclutamento dell’esercito, ha profondamente turbato le coscienze dei nostri antenati:

consisteva nel prelevamento annuale o biennale di un certo numero di bambini al di sotto dei cinque anni in famiglie cristiane dei Balcani e delle coste dell’Italia. Vi era una precisa legislazione che ad es. escludeva dal tributo la famiglie che avevano un solo figlio maschio.

Separati dai genitori, questi bimbi venivano inviati in Anatolia, presso famiglie musulmane, venivano circoncisi e cresciuti alla musulmana, imparavano il turco e le tradizioni islamiche. A dieci o undici anni entravano negli istituti di formazione, ed, a seconda delle attitudini venivano avviati all’esercito dove entravano nel corpo scelto dei Giannizzeri ( turco ottomano :يڭيچرى, turco :Yeniçeri, e cioè “nuova milizia”, detti anche Beuluk) che componevano la fanteria, guardia personale e dei beni del Sultano, o a Palazzo, dove potevano divenire Paggi, utilizzati per le funzioni amministrative.

Secondo il loro merito e la loro capacità salivano in grado, e, se attiravano l’attenzione di un potente, potevano accedere alle più alte cariche, magari anche al Gran Visirato.

Avendo praticamente dimenticato le loro origini e dovendo la loro posizione unicamente al Sultano, gli votavano la più grande devozione: tutto ciò spiega perché, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, molti settori musulmani della popolazione (specie nei Balcani) si sentivano sminuiti dal fatto che i loro figli non potevano essere ricompresi nel devshirme.

Anche se il Corpo dei Giannizzeri divenne, col tempo, un elemento di forte condizionamento del potere del Sultano, per molto tempo non fu in grado di creare un’elite di potere.

Tutto ciò era “la strategia di un autocrate che aveva ben appreso dall’Impero bizantino il pericolo di una aristocrazia potente, e la prevenzione della formazione di questa élite ereditaria era uno dei più importanti obbiettivi.” (Giachino)

Appare importante, a questo punto, anche ai nostri fini, sottolineare alcuni dati:

In primo luogo la terra era considerata “dominio personale del Sultano” e il concetto di proprietà era (almeno fino alla metà dell’800) sconosciuto.

Ciò comportava che il godimento della terra, e delle altre ricchezze, era sempre una forma di “concessione” che poteva durare fino a che un soggetto, anche se del massimo livello come un Gran Visir, rimaneva nelle grazie del Sultano.

Da ciò alcune particolari conseguenze:

In primo luogo non era possibile un trasferimento in via ereditaria dei patrimoni, con la impossibilità di formazione di “dinastie” familiari. L’unico modo per ottenere un risultato simile era quello di creare, con il proprio temporaneo patrimonio, un vakif (in arabo waqf) e cioè una “fondazione pia”.

Il vakif era quindi un “patrimonio destinato ad uno scopo” (normalmente religioso, di assistenza ai poveri, di insegnamento coranico), di carattere permanente. Nessuno, neppure il Sultano aveva il potere di far venir meno il vakif o distaccarne dei beni, cosicché il vakif era tendenzialmente “eterno”. Ancora oggi ad Istanbul grandi moschee con le relative Kulliye (complessi polivalenti comprendenti mense per i poveri, ospedali, scuole coraniche e superiori, biblioteche) sono oggetto di vakif costituiti secoli fa.

Colui che l’aveva costituito poteva nominarsi amministratore, stabilendosi un compenso e la trasmissibilità ereditaria della carica ai propri discendenti.

In secondo luogo quanto sopra detto faceva sì che nelle città di provincia non si potesse costituire l’equivalente di quella che in occidente era identificabile come nobiltà civica. Oltretutto ciò era reso impossibile da un ulteriore dato e cioè che non esisteva il Comune come organo politico- amministrativo: la città erano amministrate da alcuni funzionari nominati dal Sultano (Kadi, Agha), da altri espressione delle Corporazioni ( Esnaf) che gestivano il mercato, e da altri ancora rappresentanti i Vakif cittadini e i Millet ivi esistenti . In poche parole, anche sotto il profilo amministrativo, non era ipotizzabile una “acquisizione” del potere e quindi un operare per il suo mantenimento da parte di una ristretta elite.

In terzo luogo quella specie di feudalità di cui abbiamo parlato era in realtà estremamente diversa da quella che si aveva, in quel periodo, nell’occidente cristiano. Il feudo militare si chiamava Timar, nome che significa “curare, prender cura di qualche cosa”: il Timar è una terra le cui rendite sono attribuite ad un soggetto dal Sultano ed era uno dei fondamenti del sistema militare e socio-economico dell’Impero. L’attribuzione di un Timar comportava per il detentore l’obbligo del controllo della corretta coltivazione della terra, il diritto di percepire i redditi e le tasse, il fornire servizio in guerra con le proprie armi e cavallo e l’obbligo di fornire all’esercito provinciale un uomo armato ogni tremila Aspri di reddito. Va sottolineato come il principio di retribuire il servizio militare con i redditi della terra presentasse caratteri chiaramente derivati da modelli bizantini, già esistenti nella struttura dei Temi provinciali creati verso il VI secolo. Il Timar insomma, a differenza di quanto avveniva in occidente, non era una concessione di terre, ma una concessione fiscale: quando il Sultano attribuiva uno o più villaggi ad un Asker non gli concedeva la terra né i contadini che vi lavoravano, e meno che mai la giurisdizione, ma le decime e le tasse in denaro e in natura.

Il timariota, sotto il profilo militare faceva parte del corpo dei Cavalieri (Sipahi, componenti la cavalleria pesante). Questi erano il corpo più prestigioso reclutato fra i migliori Giannizzeri o Paggi del palazzo. A tal effetto si ricordi che la cavalleria era ritenuta per definizione l’arma più aristocratica e di elite dell’Impero. Avevano numerosi privilegi, cavalcando alla destra del Sultano e i loro orfani avevano diritto ad una pensione. Nel 1500 i Timar (suddivisi, in funzione del reddito, in tre categorie: Timar, Ze’amet e Hass) erano circa 43.000 e armavano circa 105.000 cavalieri.

A partire dal XVII secolo si accettò, sempre più spesso che un Timariota potesse trasmettere a suo figlio la stessa terra di cui egli era beneficiario.

Ora, ciò malgrado, come ben si può capire, le caratteristiche del Timar erano tali da rendere impossibile la formazione di un qualche equivalente della classe feudale, tipica dell’occidente.

Nell’Impero quindi esisteva una forte mobilità sociale, nel senso che, chiunque, anche se proveniente dai ceti più umili poteva assurgere alle più alte cariche. D’altra parte così come si saliva, si poteva cadere in modo precipitoso: bastava un sospetto e la perdita del favore del Sultano per vedersi confiscare il patrimonio e consegnare al boia: unico privilegio, l’esecuzione era per strangolamento con un laccio di seta.

Si possono riportare alcuni esempi di storia di alcune famiglia aristocratiche, particolarmente significative per comprendere i caratteri principali della nobiltà ottomana (Giachino).

Una delle famiglie più interessanti è sicuramente quella dei Sokolluzade, che discende da un serbo rapito dai turchi all’inizio del 1500, e cioè Bajica Sokolovic.

Egli nacque a Visigrad, alla frontiera tra Serbia e Bosnia nel 1505, da una famiglia della piccola nobiltà rurale. Studente al monastero ortodosso di Mileseva, fu prelevato dalla sua famiglia a 17 anni, come ” tributo del sangue” e portato con altri giovani in Anatolia.

Di aspetto imponente e dal grande naso aquilino, Sokolovic salì rapidamente, passando da Falconiere a Grande Ammiraglio, da Visir a Vicerè (Beylerbey) d’Europa, ed infine, dal 1564 al 1579 divenne il Gran Visir Sokullu Mehemet Pascià.

Intelligentissimo, diresse la politica dell’Impero: dal suo palazzo di Costantinopoli: progettava canali fra il Don ed il Volga, fra mar Rosso e Mediterraneo, contribuiva a scegliere un Re per la Polonia, negoziava condizioni di pace favorevoli nonostante la sconfitta di Lepanto…

Non dimenticò, comunque la sua famiglia: infatti fece nominare il proprio fratello Arcivescovo di Pecs.

Alla sua morte godeva fama di aver finanziato 300 moschee e possedeva quattro palazzi a Costantinopoli, oltre a un palazzo di 360 stanze ad Edirne ed ingenti ricchezze.

Il figlio Ibrahim, la cui madre era Ismihan Sultan, figlia di Selim II, ereditò una parte del patrimonio paterno, rivestì diverse cariche, fu Capoportiere e Sovraintendente delle cucine del Sultano; i suoi discendenti abitavano a Costantinopoli in un palazzo progettato dal grande architetto Sinan e vivevano delle rendite dei lori vakif.

Sulle loro tombe, disposte intorno al solenne e semiregale mausoleo di Eyup, compare spesso il titolo di Bey Efendi.

Anch’essi, come i cortigiani in occidente, tenevano compagnia al Sultano, il quale si recava in visita nelle loro case, li riceveva e li onorava del titolo ereditario di Capocaccia.

Un ambasciatore britannico affermò che erano infinitamente rispettati dal popolo; uno di essi Ibrahim Bey contribuì con 500 soldati all’armata imperiale nel 1696.

Un altro ramo della famiglia, i Sokolluzade, discendeva da Sokollu Mehemet Pasha e da un’altra moglie: tra di loro vi furono numerosi Direttori della Tesoreria, Capi della Cancelleria Imperiale, Governatori di Provincie…

Esistono ancora oggi; la madre di Dinc Bilgin, editore di Sabah, ( Il Mattino) uno dei principali giornali della Turchia, è una Sokollu.

Un’altra famiglia aristocratica la cui storia è esemplificativa, è quella dei Koprulu.

Le origini sono simili: Mehemet Koprullu nacque in Albania all’inizio del 1600, forse reclutato con “la raccolta”.

Aveva lavorato nelle cucine del Palazzo, da dove era stato cacciato per il suo carattere collerico; fu poi Ispettore degli arsenali, Governatore di provincia.

Nel 1656, appoggiato dalla madre del Sultano, la Validè Sultan, fu nominato Gran Vizir, in uno dei momenti più difficili della storia ottomana.

Egli, con pugno di ferro, seppe portare l’organizzazione dello Stato a grande efficienza.

Una lettera ad un governatore di provincia ne rivela lo stile di governo: “anche se siamo amici, sappi che se i maledetti cosacchi saccheggeranno anche uno solo dei tuoi villaggi, giuro che ti farò a pezzi perché tu serva di esempio al mondo.”

Alla morte di Mehemet Koprulu, il Sultano nominò GranVizir il figlio Koprulu Fazil Ahmed, che dopo una brillante carriera di Governatore Provinciale, si ritrovò Gran Vizir a 27 anni.

I Koprullu si erano ormai inseriti nell’aristocrazia ottomana: le cinque sorelle di Fazil Ahmed avevano sposato cinque Pascià che ricoprivano incarichi molto prestigiosi: uno comandava la Marina, un altro presiedeva il Tesoro. Due Koprulu sposarono Principesse di sangue imperiale.

Proprietari di grandi vakif dalle rendite favolose, tutti i Koprulu furono estremamente munifici: moschee, scuole, mercati, bagni…

La famiglia diede negli anni cinque primi Ministri, Gran Vizir, unico esempio in tutta Europa; l’ultimo Gran Visir della famiglia, morì nel 1719 a Creta, dove era Governatore.

Da allora i Koprulluzade, i figli di Koprullu, vissero a Costantinopoli, nella grande casa di famiglia, il Palazzo vicino alla biblioteca Koprullu, nel palazzo vicino alla Suleymanyie o nei due yali sul Bosforo.

I discendenti non salirono più ai massimi livelli dell’Impero, ma malgrado l’assenza della primogenitura ed il progressivo impoverimento, diedero alti funzionari e Governatori di Provincia.

Alla fine del secolo scorso due Koprulu, ma discendenti solo in linea femminile dai Gran Vizir, ebbero notevole prestigio: Fuad, fondatore della moderna storiografia turca, e poi Ministro degli Esteri ed il figlio Orkhann.

Fuad diceva che in Turchia non esisteva una nobiltà, ma anche la loro famiglia aveva servito l’Impero ad ogni generazione : nel settecento nell’esercito e nell’ottocento nelle ambasciate. Suo nonno, Ahamed Ziya Bey era stato Ambasciatore in Romania nel 1890; da suo figlio Ismail Bey, funzionario dello Stato nacque Fuad, che crebbe nella casa di famiglia, di fronte al mausoleo ed alla biblioteca Koprulu a Divan Yolu, nel pieno centro di Istanbul.

 

Capo dello Stato e Signore assoluto dell’Impero, ancorché sottoposto alla Legge divina (La Shari’a) e a quelle dei suoi predecessori (gli Orf) era il Sultano, individuato con alcuni titoli a lui riservati esclusivamente, molto pittoreschi quali: Principe dei Credenti, (Emir-ul-Mu’minim); Servitore delle due città sante, (Khadim-ul-Haréméin-el-muhtéréméin); Sovrano delle terre e dei mari, (Sultan-ul-berréin-vél-bahrein); Sovrano figlio di Sovrano (Es-Sultan-ibn-Sultan), Signore dei Signori (Padishah).

Anche se non ebbe mai ad usare formalmente il titolo, il Sultano si sentiva di diritto il successore degli Imperatori Romani: in quest’ottica alcuni Sultani si comportarono come i loro omologhi occidentali investendo alcuni di feudi: l’ esempio, estremamente interessante è quello dei Nasi.

Nel 1492 questa famiglia ebrea abbandonò la Castiglia per il Portogallo, si trasferirono poi ad Anversa, Venezia, Ferrara e, nel 1553 a Costantinopoli.

A Costantinopoli vivevano nel palazzo di Belvedere ad Ortakoy, dove, nella biblioteca ricoperta di tappeti, Giuseppe Nasi discuteva di politica con l’Ambasciatore francese, di ornitologia con il rabbino e di astrologia con il Patriarca…

Il Sultano Selim I lo nominò Duca di Naxos nella seconda metà del 1500.

E’ stato osservato quanto doveva essere stato dolce, per questo reietto dell’Europa, di emettere ordini scritti di questo tenore: “Giuseppe per grazia di Dio Duca dell’Arcipelago, Signore di Andro…Emesso dal Palazzo Ducale di Belvedere, vicino a Pera in Costantinopoli addì 11 luglio 1577…” .

Un altro “marrano” portoghese, Salomon Abenas che da cristiano si chiamava Alvaro Mendes da Costa, fu nominato dal Sultano nel XVI secolo Duca di Mitilene ( il turco Midilli, in greco Lesbos)

Selim I nel 1517 assunse per se e i suoi successori anche il titolo di Califfo.

Il Califfo (arabo خليفة, khalīfa, ossia «vicario, reggente, facente funzione, successore») nell’Islam è il vicario osuccessore di Maometto alla guida politica e spirituale della comunità islamica universale ( al-Umma al islamiyya ).

Costituisce la massima magistratura islamica (con una rilevanza eminentemente politica, anche se non esente da risvolti spirituali), ma non è prevista nel Corano e neanche nella Sunna di Maometto. Fu, infatti, realizzata in modo del tutto originale da alcuni fra i primissimi compagni del Profeta  nella stessa giornata della sua morte, l’8 giugno 632 (corrispondente al 13 rabi I dell’11 dell’egira).

Dopo i primi cinque Califfi (gli “ortodossi”, il termine arabo è quello di rāshidūn) la carica divenne appannaggio della dinastia omayyade (651), che pose la propria capitale a Damasco e poi, dopo la sollevazione del 750, di quella Abbaside che pose la propria capitale nella nuova città di Baghdad fondata fra il 762 e il 767. Il califfato sunnita finì nel 1258 quando i Mongoli distrussero Baghdad e misero a morte l’ultimo Califfo abbaside, al Musta’sim. Tuttavia esso continuò in una linea collaterale con i Califfi della dinastia abbaside de Il Cairo, sotto lo stretto controllo dei Mamelucchi, iniziando da al Mustansir ed i suoi successori, fino a che, nel 1517, il Sultano Selim I, sconfitti i Mamelucchi e annesso l’Egitto all’Impero Ottomano, si fece trasferire il titolo califfale da al Mutawakkil III.

E’ interessante ricordare che, allorché Kemal Ataturk nel 1922 pose fine all’Impero deponendo l’ultimo Sultano, Maometto VI, e proclamando la Repubblica, trasferì il titolo califfale al di lui fratello Abdul Mejid, salvo deporlo anch’esso nel 1924 con la definitiva eliminazione del Califfato.

Titolo di assoluto rilievo nell’ambito della famiglia imperiale era poi quello di Valide Sultan, attribuito alla madre del Sultano. Il ruolo della Valide Sultan era il più importante dopo quello del Sultano, avendo una significativa influenza negli affari di stato. In particolare nel XVII secolo, si succedettero una serie di Sultani poco competenti o di giovane età, lasciando spazio al rafforzamento della figura della Valide, tanto che questo periodo viene definito il sultanato delle donne ( o anche “governo dell’Harem”).

Nell’ambito della famiglia imperiale ai Principi Imperiali che, qualora figli maschi del Sultano   avevano diritto al titolo di Şehzade (forma turca del titolo persiano di Shahzade ) e cioè “principe” premesso al nome, .era riservato poi il titolo di Efendi, con il trattamento di Altezza Imperiale, (ad es. Şehzade Abdullah Efendi, 1523–1526, figlio di Solimano il Magnifico), mentre alle figlie del Sultano quello di Sultan, entrambi posti dopo il nome, ad esempio Nailè Sultan. o Selim Efendi

Kadin Efendi era poi il titolo portato dalle Odalische favorite che avevano pure il trattamento di Eccellenza.

I generi del Sultano avevano diritto al titolo di Damad, premesso al nome: si ricordi Damad Ferid, penultimo Gran Visir dell’Impero e genero del Sultano Maometto VI. Se essi rivestivano il ruolo di Visir o di Generale d’Armata (Maresciallo) avevano altresì diritto al trattamento di Altezza.

Esistevano poi dei titoli “di funzione” e cioè titoli non ereditari che onoravano i gradi maggiori della funzione amministrativa e militare, e che venivano conferiti dal governo. Alcuni si ponevano davanti al nome: ad es. il titolo di Ghaz, che veniva conferito al musulmano che aveva vinto una importante battaglia; quello di Mollah, conferito dallo Sheikh-ul-Islam ai religiosi.

Il titolo di Pascià (probabile mutazione della parola Pādishāh, “signore”, in turco Paşa) era attribuito, sempre dal Governo, ai Visir, ai componenti del Divan, ai Beylerbey, ai Marescialli d’Armata e ai Generali di Divisione e di Brigata. Era altresì attribuito a quanti fra i militari erano destinati a ricoprire, nelle più importanti province ottomane, la suprema carica governatoriale, responsabili del loro operato soltanto di fronte alla Sublime Porta. Dopo l’avvio delle cosiddette “riforme” (tanzīmāt) del XIX secolo il titolo di Pascià fu attribuito ai funzionari dei quattro gradi principali dell’amministrazione e militare, oltre a qualche altro importante notabile civile. Fu abolito in Turchia nel 1934.

Altro titolo di funzione era quello di Bey (dal turco antico beg, ossia “signore”, che originò l’arabo بك / bek; ottomano بگ / beg) ; era un titolo turco-ottomano, anticamente attribuito ai leader di piccoli-medi gruppi di tribù. Più tardi questo titolo venne adottato dall’ Impero Ottomano  per indicare una tipologia di nobiltà, molto simile al sir inglese. Era attribuito ai Governatori delle provincie, ai Colonnelli, ai Tenenti Colonnelli, agli Aiutanti di Campo del Sultano e ai funzionari civili, con gradi corrispondenti, posponendolo al nome (ad es. Enver Bey).

Come già accennato quello di Bey era un titolo concesso dal Governo. Ereditariamente era, invece, portato dai discendenti di antiche famiglie regnanti, dai discendenti di celebri uomini di Stato, e dai figli di chi aveva il trattamento di Eccellenza, ( Hazirétléri, e cioè di chi ricopriva o aveva ricoperto il grado di Generali di Divisione e il grado civile corrispondente, Bala. Un particolare rilevo aveva il Bey di Tunisi, che, col tempo, più che un amministratore di una provincia, era divenuto un vero e proprio Viceré dotato di larghissima autonomia. La dinastia beycale di Tunisi continuò in via ereditaria ad esprimere i (formali) Capi dello Stato tunisino anche quando questa regione fu staccata dall’Impero a seguito dell’ occupazione francese del 1888, e fino al 1956, anno di nascita della Repubblica indipendente.

Simile, ma considerato superiore, era il titolo di Dey attribuito ai Governatori, ma in realtà Viceré totalmente autonomi, di Algeri e di Tripoli.

Deve essere sottolineato che i titoli di Pascià e di Bey erano attribuiti a prescindere dalla religione professata.

Altri titoli di funzione di erano:

– quello di Agha (in turco: ağa, “padrone”), titolo da Ufficiale civile o militare o di corte, in particolar modo riservato, a partire dal XIX secolo agli Ufficiali analfabeti, fino al titolo di Maggiore. Si ricordi però che i Capi degli eunuchi, che godevano di grande influenza, come abbiamo già visto, erano qualificati con questo titolo. I notabili dell’Asia Minore che non avevano diritto al titolo di Bey, preferivano infine portare il titolo di Agha a quello di Efendi;

– quello di Efendi (dal turco Efendi, in arabo: أفندي‎, Afandi) è un titolo turco che deriva dal greco αὐθέντης (trasmesso al turco per il tramite del greco-bizantino; pronuncia: afthéndis → aféndis) e che significa in entrambe le lingue “signore” o “maestro”, anche se non manca un’etimologia “nazionale” che vorrebbe risalire all’antico termine turco apandi, che era un titolo di nobiltà e che sopravvive nell’antico uiguro. Era in origine portato dai dignitari civili e religiosi, e nel XIX secolo invece era riservato agli Ufficiali non analfabeti fino al grado di Maggiore e a tutti gli ecclesiastici, musulmani, cristiani ed ebrei, oltre che ai funzionari subalterni che sapevano leggere e scrivere. Veniva posposto al nome: quello di Mollah, (mullah, mulla, o mollâ (in persiano: ملا), termine che indica un sapiente musulmano nei paesi in cui si è mantenuta un’influenza del persiano -Afghanistan, sub continente indiano, e fino alla riforma di Ataturk, la Turchia, ecc. – Nel mondo arabo si utilizza piuttosto il termine alem (ʿalim / ʿulama) per caratteristiche analoghe. Il termine, che in arabo riveste vari significati, talvolta contraddittori: aiutante, associato, cliente, campione, difensore, signore, maestro, proprietario, schiavo liberato, patron, sovrano) rappresentava un titolo conferito dal Sheikh-ul-Islamat a coloro che ricoprivano funzioni giuridiche e religiose.

I Mollah si dividevano in Mufti, religiosi, e Kadi, giudici, funzionari del temporale.

Il titolo ereditario di à-Séid, o Sayyid (nel linguaggio parlato talora Sayyed – in arabo ﺳﻴﺪ‎ -), che originariamente significava “oratore” inteso come capo tribù, e poi “signore”, in senso spirituale, era invece portato dai discendenti del Profeta Maometto, ma la maggior parte dei titolari non   poteva provarne la legittimità.

Tra i titoli assunti dai singoli, è interessante citare il titolo di Hadji, (in arabo: الحجّي) o El-Hajj, che aveva il diritto di assumere il musulmano che era stato in pellegrinaggio alla Mecca; ed insieme a questo titolo aveva il diritto-dovere di portare la barba di una certa lunghezza. Ancora oggi il titolo e la barba contraddistinguono ed onorano il buon musulmano che ha già fatto il pellegrinaggio. Lo stesso titolo veniva dato ad un cristiano che era stato a Gerusalemme in pellegrinaggio, cosa che dimostra, ancora una volta, la forma di tolleranza e rispetto per le altre religioni, tipica dell’Impero: figurava allora in greco χατζής, al plurale χατζήδες; e in slavo del sud hadžija, al pluriale hadžii.

Tra i titoli riconosciuti ma non concessi dal Governo, ve ne erano alcuni molto simili ai nostri titoli nobiliari; trattasi peraltro di titoli che sovente avevano un’origine pre ottomana.

Titoli davanti al nome: Emir, in Turchia questo titolo, ereditario, era molto raro ed era portato da sudditi ottomani arabi o siriani discendenti da antiche dinastie come i discendenti dei Sovrani del Libano, degli Emiri Aslan, dell’Emiro ‘Abdul-Quadir d’Algeria.

     Sheikh, titolo portato dai capi delle tribù in Arabia ed in Africa e dai capi delle confraternite religiose musulmane. Anche questo titolo era ereditario. Molti abitanti delle Città Sante si arrogano tuttora il diritto di portare questo titolo.

Titoli dopo il nome: Khan, titolo portato da qualche capo di tribù curda alla frontiera con la Persia.

 

 

La nobiltà greca (o fanariota, dal nome del Fanar, quartiere di Istanbul dove ha sede il Patriarca ortodosso di Costantinopoli e dove risiedeva la grande maggioranza dei suoi componenti), altro non è che una parte dell’antica classe dirigente dell’antico Impero Romano d’Oriente.

Allorché nel 1453 Maometto II conquistò Costantinopoli, dopo le stragi ed i saccheggi (il diritto islamico prevedeva infatti che nel caso di conquista di una città che non si era arresa i soldati avessero libertà di saccheggio per tre giorni, ma nel caso di Costantinopoli Maometto II ridusse drasticamente questo periodo) la città si era svuotata della massima parte della popolazione greca, ivi compreso il patriziato. Il Sultano allora operò in due modi: in primo luogo, arrogandosi il diritto già spettante agli Imperatori, nominò il nuovo Patriarca ortodosso nella persona di Gennadio II Scolario, assegnandogli una nuova sede, visto che Santa Sofia era divenuta una moschea, e molti privilegi: l’inviolabilità personale, l’esenzione fiscale e il diritto di trasmettere queste prerogative ai suoi successori. In secondo luogo ordinò alla popolazione greca di rientrare in città, cosicché dopo pochi decenni la popolazione di Costantinopoli era tornata ad essere greca per quasi il 50 per cento.

Gli esponenti di grandi famiglie, alcune delle quali di stirpe imperiale, quali i Lascaris, i Frasngopoulo, i Cantacuzène ed i Paleologo ritornarono ad Istanbul.

I Greci, venendo così a costituire il Millet dei Rum (=Romani), ottennero varie concessioni in materia giudiziaria per cause riguardanti il matrimonio, il divorzio e la tutela dei minori, oltre alla facoltà di risolvere le dispute teologiche, il tutto sotto la direzione del clero ortodosso e del Patriarca, responsabile del Millet nei confronti del Sultano.

Una parte dell’antica classe dirigente dell’Impero Romano d’Oriente venne così a riorganizzarsi attorno alla figura del Patriarca, ampliata dagli apporti degli antichi territori imperiali che venivano via via annessi, in particolare l’Impero di Trebisonda e il Despotato di Morea.

Questi fanarioti rivendicarono la discendenza dagli antichi bizantini e si considerarono l’aristocrazia greca.

Bisanzio, infatti, non poteva scomparire per la conquista di Costantinopoli, Mistra e Trebisonda nel XV secolo: la civiltà di Bisanzio, l’eredità intellettuale Greca, il diritto romano, la religione ortodossa rimasero ben presenti nell’Impero Ottomano.

Ecco che poco alla volta, con il commercio, con l’appalto delle imposte dell’Impero, la nobiltà bizantina, che, per evitare l’abiura, si era prudentemente tenuta in disparte, si rialzò progressivamente.

L’organizzazione del Patriarcato, punto di riferimento dei fanarioti, si imperniava sul Gran Logoteta (sorta di Primo Ministro) figura analoga a quella già esistente sotto l’Impero Romano, e il Consiglio Patriarcale di cinque membri ( i Penta ).

Il Patriarcato ed i fanarioti, per tradizione costituzionale, esprimevano due altissimi funzionari statali.

In primo luogo il Gran Dragomanno della Porta. Dragomanno è una delle tante forme romanze derivate dall’arabo ترجمان (tarjumān) e transitate per il turco tercüman, che indicava l’interprete, e, in testa a tutti, designava il “Dragomanno della Porta” o “Dragomanno del Divano”, ovvero il funzionario  incaricato delle relazioni diplomatiche dell’Impero Ottomano con le potenze di tutto l’Occidente, insomma una specie di Ministro degli Esteri. Infatti la maggior parte della corrispondenza tra l’Impero Ottomano e gli Stati europei fino alla fine del XV secolo, ai tempi degli imperatori Mehmed II e Bajezid II, si svolgeva in greco o in italiano e, all’inizio del XVI secolo, quando i rapporti diplomatici e burocratici tra l’Impero Ottomano e l’Occidente si allargarono, si presentò il problema della mancanza di traduttori e interpreti per le varie lingue europee. Questi vennero reclutati nell’ambito della comunità greca e, dall’anno 1536, questo nuovo profilo di funzionari di Governo e cioè del  Divan, venne chiamato humayun tercumani (interprete di palazzo imperiale). Il Gran Dragomanno era appunto il capo di questo apparato diplomatico, linguistico (e spionistico) con il quale si rapportavano i Dragomanni delle varie Ambasciate occidentali a Costantinopoli.

Si può fare l’esempio dei Maurocordato. Alessandro Maurocordato, figlio di un mercante greco di Chio e di Rossana, vedova di un Principe di Valacchia, dopo gli studi in medicina a Padova, fu medico del Gran Visir Fazil Ahmed Koprulu e dell’Ambasciatore di Francia, il Marchese di Nointel. Conoscitore di molte lingue, fu nominato Gran Dragomanno della Porta; fu consigliere del Ministro degli Esteri Rami Mehrmed Efendi, e partecipò ai negoziati della pace di Karlovitz; da allora la storia di questa famiglia è la storia dell’Europa sudorientale. Una sua affermazione contenuta in una lettera inviata il 30 novembre 1784 al Console dell’Impero asburgico che gli aveva negato il trattamento principesco di Altezza Serenissima, ben dimostra l’albagia e l’auto considerazione che avevano queste famiglie che si sentivano ad un tempo eredi del patriziato dell’antico Impero Romano d’Oriente e   parte del ceto dirigente dell’Impero Ottomano: “…se il Principe Kaunitz è Principe del Sacro Romano Impero…, io sono un Principe del Sacerrimo Impero Ottomano ….io sono il signore; io sono un Principe nato da una famiglia che regna da duecento anni, un Sovrano reggente, io posso dire quello che voglio: non temo né l’Imperatore né il Principe Kaunitz…”.

Alla fine del XVIII secolo la famiglia si divise in due rami: quello primogenito di trasferì in Moldavia ed oggi è presente il Germania. Quello cadetto nel 1821, allo scoppio della rivoluzione greca, si rifugiò ad Atene, ed Alessandro, nipote del precedente, divenne Presidente del Consiglio del Regno di Grecia nel 1833.

In secondo luogo il Gran Dragomanno della Flotta, che nominava gli amministratori delle isole dell’Egeo, le rappresentava davanti al Divan ed era il giudice supremo delle stesse.

Nel XVIII secolo, poi, esponenti delle famiglie dei fanarioti vennero scelti dai Sultani per diventare Ospodari o Voiovodi di Moldavia e Valacchia: come tali prendevano il titolo di Principe, o Archonta, mentre la moglie quello di Donna e le figlie di Domnizza.

I due Principati di Moldavia e Valacchia, infatti, ancorché facenti parte dell’Impero Ottomano, erano nella sostanza pienamente autonomi, e i rispettivi Ospodari godevano di una Corte principesca, non inferiore a quelle dell’occidente europeo: va precisato che Ospodaro, gospodaro,  (gospodar o hospodar), è un termine di origine  slava, che significa “signore”. I governanti della Valacchia e della Moldavia erano nominati già hospodar negli scritti slavi fin dal XV secolo e ciò durò fino al 1866, anno di riunificazione e di nascita del Regno di Romania. Hospodar era titolo usato insieme a quello di Voivoda. Negli scritti in lingua rumena veniva utilizzato il termine Domn (dal latino dominus).

Tra le famiglie dalle quali furono tratti dei Principi di Valacchia e di Moldavia ebbe grande importanza quella dei Cantacuzène che vantava due Imperatori di Costantinopoli: Giovanni negli anni 1341 e 1354 e Matteo negli anni 1353 e 1357. L’ascesa dei Cantacuzène nell’Impero Ottomano è esemplificativa della forte mobilità sociale che abbiamo già rilevato.

Nato verso il 1515, Michele Cantacuzène, soprannominato Saitanoglu, figlio del diavolo, era riuscito ad ottenere una forte influenza sul Gran Vizir Mohammed Sokollu Pasha. Divenne poi Intendente delle saline del Sultano, carica che dava un potere considerevole.

Il suo palazzo, sui bordi del mar Nero, ad Anchialis, era conforme alla nuova ricchezza ed alla nobiltà della famiglia: circondato da mura ospitava un centinaio di servitori, quaranta paggi, numerosi schiavi e qualche giovane vergine riacquistata ai Turchi…

All’interno stoffe di Damasco, pellicce di zibellino, velluti, piatti d’oro e d’argento, bottoni tempestati di turchesi e rubini, ed in più, fatto eccezionale, una biblioteca contenenti manoscritti di Esculapio, delle Sante Scritture…

Circondato da un esercito personale, sigillava le lettere con l’aquila imperiale bicefale dei suoi antenati Imperatori; un sacerdote celebrava la Messa per lui tutti i giorni nella sua Cappella personale; egli aveva sposato la figlia del Principe di Valacchia. Armò una sessantina di galere che parteciparono alla battaglia di Lepanto, ovviamente nell’ambito della flotta ottomana.

Caduto in disgrazia, fu arrestato ed impiccato alla porta del suo palazzo nel 1578. Tutti i suoi beni furono venduti: ancora oggi .per dimostrare stupore di fronte ad una bella cosa si dice: “tu l’hai presa all’asta di Saitanoglou”. Il figlio Andronico, aiutato dal Gran Visir Sokullu, riuscì a fuggire nascondendosi fra i rematori di una galera, andò poi a Candia, dove abitava una sorella, in attesa che le acque si calmassero. Nel 1590 ritornò a Costantinopoli e fu poi nominato Gran Tesoriere dal Voivoda di Valacchia.

I Cantacuzène si trasferirono in seguito in Valacchia dove Serban fu Principe (Voiovoda) dal 1679 al 1688 e Stefano dal 1714 al 1715. Dumitrasco divenne invece Principe (Voiovda) di Moldavia dal 1674 al 1675 e poi ancora dal 1684 al 1685.

Questa famiglia che conta ancora numerosi discendenti, nostri contemporanei, si divise in più rami: quello rumeno, bulgaro, russo e vive oggi in Romania, Francia, Stati Uniti, Svezia, Germania, Belgio e Svizzera.

E’ stato fatto osservare, con tristezza, che “la tradizione di Bisanzio in Turchia finì progressivamente a causa di questi aristocratici di origine bizantina che, come interpreti della Sublime Porta, come diplomatici nelle capitali europee, si erano impregnati, poco alla volta, di un doppio ideale, nefasto per il bizantinismo che aveva resistito a tutti i pericoli: lo spirito della libertà e del nazionalismo come propagandato dai filosofi francesi del XVIII secolo e dalla rivoluzione francese. Essi cercavano la libertà senza sapere che quella libertà, nemica delle influenze religiose, delle autorità storiche e del sovranazionalismo avrebbe definitivamente distrutto il loro mondo….”.

Il nazionalismo del nascente Regno di Grecia al quale si contrappose il nazionalismo dei Turchi che, anch’essi, cominciavano a mal tollerare la struttura soprannazionale dell’Impero in decadenza, la catastrofe della guerra greco-turca del 1919-1923 con lo scambio delle popolazioni (che però risparmiò Costantinopoli, dalla quale i greci si allontanarono travolti dall’odio che si era instaurato tra le due nazioni ) e le vicende successive, spiegano il migliaio di Greci che ancora vivono in una nazione ormai totalmente turca, e le case sventrate ed abbandonate che ad oggi si vedono nel miserabile quartiere di Fanar.

Solo il grande Patriarcato conserva in parte il suo splendore, con una faticosa ricostruzione del proprio ruolo in Turchia, grazie anche ad alcune positive scelte dell’attuale governo.

 

Struttura analoga, anche se di molto più modesto peso politico, era quella del patriziato armeno, raccolta attorno al Patriarca Armeno di Costantinopoli (egli porta anche i titoli di “patriarca armeno di Costantinopoli e di tutta la Turchia” o di “patriarca degli armeni di Turchia“).

Il Patriarcato fu fondato nel 1461, appena dopo la conquista ottomana di Costantinopoli, per volere del sultano Maometto II, che sottopose alla sua giurisdizione tutti gli armeni del suo impero.    L’importanza del Patriarcato armeno, che ebbe sede nel Monastero bizantino di Studion, cominciò a diminuire con il decadere della potenza ottomana, fino a restringersi ai soli armeni di Turchia, esclusi quelli che sono sottoposti al Catolicosato della Grande Casa di Cilicia.

Nel 1914 il Patriarcato comprendeva ancora 12 arcidiocesi e 27 diocesi, oltre a 6 monasteri autonomi. Ma la tormenta e le stragi che si abbatterono sugli Armeni dell’Impero Ottomano durante la prima guerra mondiale fece scomparire del tutto queste circoscrizioni. Lo stesso Patriarca dovette lasciare Istanbul e la sede rimase vacante per anni. Con il Trattato di Losanna del 1923 il governo turco repubblicano accettò l’esistenza del Patriarcato, che pose di nuovo la sua sede in Istanbul, ma ne limitò i compiti all’ambito religioso.

Ai nostri fini va ricordato che il Patriarca armeno poteva concedere (dalla fine del 1600) il titolo di Amiras (di componente cioè di una specie di patriziato, nato nella capitale armena di Ani), titolo che peraltro poteva essere concesso agli Armeni anche dal Sultano. Il titolo in realtà qualificava un’élite nei settori del commercio, dell’industria e delle attività professionali che ricopriva ruoli di rilievo nella struttura del Millet armeno e che manteneva rapporti privilegiati col governo ottomano. Alla fine del 1700 esistevano nell’Impero un centinaio di famiglie di Amiras e per il loro numero, per i privilegi acquisiti, per la trasmissione ereditaria dei titoli e delle funzioni gli Amiras costituirono una classe riconosciuta e descritta come una vera aristocrazia, e ciò fino alla metà del XIX secolo. Il titolo si portava tra il nome ed il cognome e dava luogo a cinque prerogative: l’esenzione dai tributi, il diritto a portare la toughrà (monogramma imperiale) sul colbacco, quello di portare pellicce nobili, di montare a cavallo ed infine ….di farsi crescere la barba. Nel XVIII secolo i gli europei salutavano gli Amiras col titolo di Principe Banchiere e gli Armeni davano loro il titolo di Ichkan (Principe).

Dopo le vicende connesse alla prima guerra mondiale a Istanbul (dalla quale ne furono deportati duemila) rimangono solo cinquantamila Armeni, ma quasi tutti i discendenti degli Amiras se ne andarono.

 

Il terzo tipo di Nobiltà che esisteva a Costantinopoli, era quella di alcune famiglie “straniere”. Sul punto si riporta quanto scritto da uno studioso attuale che ha dedicato numerose pagine al tema dei titoli, trattamenti e nobiltà nell’Impero ottomano.

“Molti stranieri vivevano ad Istanbul e formarono quella comunità chiamata, forse con un po’ di spregio dagli Europei, dei Levantini.

Questa comunità, multinazionale e rigorosamente cattolica, viveva nel proprio ambito, impermeabile a turchi, ebrei…

La vita sociale si svolgeva rigorosamente tra persone di questo ambiente e di condizione sociale ed economica equivalente.

Tra queste famiglie voglio citare i Drapieri, i Salvago, i Pisani, i Fornetti, i Testa, i Missir, gli Aliotti, i Roboly.

Per sei secoli il nome della famiglia Testa fu sempre presente negli annali della diplomazia dell’Impero Ottomano.

I Testa, che in origine erano mercanti e notai, erano arrivati da Genova nel duecento. Si dice che un Testa avesse firmato nel 1261 il trattato con cui i bizantini riottennero Costantinopoli dai latini. Nel 1438 Tomaso de Testa e sua moglie Luchineta Spinola furono sepolti nella Chiesa di San Paolo, la lapide si trova ora al museo archeologico.

Nella seconda metà del seicento i Testa che parlavano l’ottomano, l’italiano, il greco, il francese ed altre lingue, divennero interpreti delle ambasciate occidentali.

Ma il salto decisivo lo fecero nel settecento quando divennero sudditi ed ambasciatori dei governi Europei: Gaspard (1684+1758), fu Dragomanno dell’ambasciata olandese, il figlio Giacomo (1725+1804) fu incaricato d’affari olandese a Costantinopoli. I suoi discendenti presero la nazionalità olandese e si dedicarono alla professione di famiglia, la diplomazia, a Costantinopoli, Tokio, Madrid… Cavalieri ereditari dal 1783, l’Impero Austriaco li fece Baroni nel 1807 e l’Olanda nel 1847.

Tra questa comunità visse verso il 1828 Giuseppe Donizetti, il fratello del grande compositore Gaetano, che, Ufficiale di Napoleone venne a Costantinopoli per insegnare a suonare le marce militari. Il Pasha Donizzetti visse fino alla sua morte, nel 1856, insegnando musica al Sultano all’harem ed alla scuola di musica imperiale.

Anche un Ufficiale piemontese di nome Calosso, dopo di aver combattuto con Napoleone, venne ad Istanbul per cercarvi fortuna verso il 1820. Ridotto alla fame, nel 1826 riuscì a domare un cavallo che aveva sbalzato di sella numerosi turchi, attirando su di sé l’attenzione del Monarca. Addestrava le reclute, insegnava equitazione e divenne molto caro al Sultano che gli regalò una delle più belle case di Pera.

I Baltazzi, originari di Chio ed arrivati a Costantinopoli verso il 1830, divennero banchieri ed appaltatori di imposte.

Helena, all’età di 17 anni nel 1864, sposò il Barone Vetsera, Console Austriaco. La loro figlia portò nei salotti viennesi la licenziosità di Pera: fu con lei che Rodolfo d’Asburgo decise di suicidarsi nel 1889.

Gli Aliotti, Patrizi fiorentini, si trasferirono ad Ismir, o, come si diceva allora, a Smirne, con Giuseppe, Console del Granduca di Toscana. Integratasi nella comunità levantina, la famiglia partecipò a numerose imprese commerciali.

Carlo fu Ministro Plenipotenziario in Giappone. Il Re Vittorio Emanuele II diede loro il titolo di Barone nel 1867; il Papa Leone XIII li insignì del titolo di Conte nel 1897.

Anche questo mondo cattolico e levantino sta finendo: l’endogamia stretta che lo aveva salvato dall’estinzione non esiste ormai più, queste famiglie o abbandonano la Turchia per l’Europa o si inseriscono sempre più nel mondo dei “miliardari” turchi e perderanno nel giro di pochi decenni la loro specificità e le loro tradizioni.”

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

 

Roberto Giachino-Sandri, Spunti per una storia sociale della Turchia degli Ottomani: Titoli, trattamenti e nobiltà, in Riv. Arald., 2002-2006.

Robert Mantran, Storia dell’Impero Ottomano, Lecce, Argo, 2000.

https://it.wikipedia.org/wiki/Impero_ottomano.

 

Dedico questo mio scritto al caro amico Erol Baraz, laureato in Agraria all’Università di Firenze, già Console d’Italia a Edirne, che dall’alto dei suoi 90 anni gestisce con giovanile entusiasmo la tenuta agricola di famiglia, sita in Edirne, mantenendo vivo il ricordo del suo antenato Ahmed Tevfik Pascià, ultimo Gran Visir dell’Impero Ottomano

 

 

 

 

Categoria: Rivista n° 4 01/2016 | RSS 2.0

Mappa sito - Privacy Policy - Credit - Termini d'uso - Cookie Policy

Rinnova o modifica la tua autorizzazione ai cookie