Francesco Brusco – Authorship e produzione collettiva nella canzone d’autore italiana. Il caso De André.


Francesco Brusco

Authorship e produzione collettiva nella canzone d’autore italiana. Il caso De André.

Abstract

La produzione discografica di Fabrizio De André è un rilevante caso di studio sul concetto di authorship nella popular music. Alla sua aura di artista individuale si contrappone una modalità di scrittura collettiva ricorrente sin dalle primissime fasi del processo compositivo.
Dopo aver tracciato le coordinate teoriche del discorso sull’autore, vengono vagliati moventi, natura e finalità delle collaborazioni del cantautore genovese, senza tralasciare l’impatto dell’industria culturale sulle sue scelte artistiche.
La storia del De André cantautore è storia di scrittura collettiva. Anche nel suo caso l’authorship va quindi declinata al plurale e fatta scaturire da un continuo scambio con la ricezione. È quest’ultima, alla fine di un articolato percorso di costruzione dell’immagine, a
ricomporre in unità la molteplicità dell’opera e a conferire il titolo di autore.

Morte e resurrezione dell’autore: letteratura, cinema e canzone

«Che cos’è un autore?». La domanda posta da Michel Foucault1 cinquant’anni fa al Collège de France si ripropone, da allora, a chiunque voglia affrontare la questione dell’autorialità nelle arti contemporanee, assieme a una seconda, beckettiana questione:
«Cosa importa chi parla?».
Due domande che dell’autore — nel senso classico-romantico del termine — sanciscono la morte, già annunciata da Barthes.2 Scomparso come soggetto, individuo, esso sopravvive come funzione-autore: una variabile, legata al contesto storico, culturale, giuridico e
istituzionale dei diversi tipi di linguaggio, la quale può «dar luogo simultaneamente a molti ego, a molte posizioni-soggetto che classi diverse di individui possono occupare».3

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1 M. Foucault, «Qu’est-ce qu’un auteur?», in Bulletin de la Société Française de Philosophie, vol.
LXIX, n. 3, 1969, pp. 73-104; trad. it. «Che cos’è un autore?», in Id., Scritti letterari, Milano, Feltrinelli,
pp. 1-21.
2 R. Barthes, «La morte dell’autore», in Id., Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Torino, Einaudi,
1988, pp. 51-56.

E sopravvive — in nome della preminenza del linguaggio su chi lo produce — la
ricezione, cui bisogna restituire un ruolo centrale. Tra i nuovi codici che ne richiedono l’intervento c’è quello della popular music, che dell’autore — proprio mentre altrove se ne decreta la morte — acclama la resurrezione. Un discorso in cui «chi parla» importa, eccome.
La critica cinematografica, prima di quella musicale, inizia a ricercare i segni dell’autorialità4 già dalla seconda metà degli anni Cinquanta, con l’esordio della politique des auteurs sulle pagine dei «Cahiers du Cinéma».5 Per conferire dignità culturale alla nuova arte,
la si accomuna alla letteratura e alla pittura come mezzo di espressione libera e, soprattutto, individuale.6 Sarà Bazin a demistificare la lettura dei film come creazioni di singoli individui,
distinguendo l’auteur dal semplice metteur en scène.7

I fermenti artistici e teorici d’Oltralpe riecheggiano in Italia, dove contemporaneamente ha inizio la costruzione e la legittimazione di un nuovo soggetto artistico, il “cantautore”, e parallelamente di un oggetto, la “canzone d’autore”. Nei due neologismi, desunti dal lessico del cinema contemporaneo, convivono linguaggio artistico e strategia di mercato.8
Un mercato in forte crescita, sospinto dalla competizione tra piccole etichette discografiche, moltiplicatesi grazie alla riduzione dei costi derivante dai nuovi sviluppi tecnologici, in primis la registrazione su nastro. Le case discografiche, a loro volta,
rivaleggiano strenuamente con gli editori.
Dal punto di vista della ricezione, negli anni del boom crescono sia il livello di istruzione che il potere d’acquisto dei giovani; anche per questo la cultura di massa inizia a riscuotere l’interesse degli intellettuali del Bel Paese.9 Gli anni Sessanta e Settanta vedranno l’apertura di ulteriori spazi: il Folkstudio, i Festival dell’Unità, il Club Tenco, il primo Congresso

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3 M. Foucault, op. cit., p. 14.
4 Nel corso dell’articolo, il termine italiano autorialità — di diffusione relativamente recente — verrà utilizzato come sinonimo dell’inglese authorship, maggiormente corrente nel dibattito teorico.
5 Sulla scia della «Revue du Cinéma».
6 E. Buscombe, «Ideas of Authorship», in Screen, vol. 14, n. 3, 1973, p.2.
7 A. Bazin, «De la politique des auteurs», in Cahiers du Cinéma, n. 70, aprile 1957, pp. 9-11. L’autore
(Bazin cita Hitchcock come esempio) è colui in grado di donare al lavoro unità organica. Il metteur en scène, privo di un vero stile personale, adatta, seppur abilmente, il materiale a sua disposizione (qui l’esempio è quello di Huston).
8 Il termine cantautore compare per la prima volta nel 1960, all’interno del catalogo RCA (casa discografica responsabile peraltro dell’introduzione in Italia delle modalità di produzione discografica
di stampo americano). Per la genesi etimologica della canzone d’autore si veda E. De Angelis, «La Canzone d’Autore. Luigi Tenco: un utile ritorno», in L’Arena, 13 dicembre 1969.
9 Fra i primi intellettuali a coglierne l’urgenza, Umberto Eco, con l’opera Apocalittici e integrati: comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Milano, Bompiani, 1964.

Nazionale della Nuova Canzone (1975); ma anche riviste specializzate, collane editoriali, congressi, eventi. Il tutto, sullo sfondo dei Movimenti.
Il mondo dei cantautori, pienamente inserito in questo quadro, viene dipinto con tinte comuni. Anzitutto le si attribuisce un’estrazione essenzialmente urbana e borghese — ma cosa direbbe a proposito Guccini? — e un alto livello culturale, non limitato alle sette note.
Al contrario, l’educazione musicale si presume carente: anche qui però abbondano eccezioni, come Umberto Bindi e Paolo Conte. Infine, un requisito comune essenziale su cui torneremo, quello dell’autenticità, che emerge dalle loro voci «stonate ma vere».10
Un’autenticità costretta però a scendere a patti con l’esigenza di visibilità, raggiungibile solo tramite l’industria culturale. La nuova canzone vive nella relazione tra cantautore, industria e consumatore; un rapporto non privo di conflitti, anche tragici, come dimostra il
caso di Tenco. Tutti i cantautori «sono partiti come unici produttori e responsabili delle loro canzoni e in seguito hanno dovuto decidere se continuare a rimanere tali o entrare in qualche modo nel processo di industrializzazione».11 De André non farà eccezione a questo schema:
anche se “la voce del padrone”12 non sovrasterà mai la sua, il connubio con l’industria sarà un
fattore decisivo per le sue scelte cooperative.

La authorship nella popular music

Pur dall’interno del sistema, la figura del cantautore introduce «la possibilità di una divaricazione tra il valore commerciale della canzone e il suo valore culturale»13, distinguendo la nuova canzone d’autore da quella tradizionale. Lo fa superando la distinzione
compositore/interprete, elargendo impegno nella musica e soprattutto nei testi, con una nuova attenzione per l’aspetto letterario: attraverso l’accostamento tra canzone e poesia «si attua
dunque quel “trasferimento di legittimità” necessario per la costituzione del nascente campo della canzone d’autore».14

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10 F. Fabbri, «Il cantautore con due voci», in R. Giuffrida e B. Bigoni (eds.), Fabrizio De André. Accordi
eretici, Milano, Euresis Edizioni, 1997, p. 86.
11 A. Carrera, «Musica da tavola nell’unità d’abitazione. Note su Brian Eno», in Musica/Realtà, 10,
aprile 1983, pp. 136-137.
12 Riferimento al celebre marchio discografico, figlio della inglese His Master’s Voice, che diventerà
poi EMI.
13 M. Santoro, «La leggerezza insostenibile. Genesi del campo della canzone d’autore», in Rassegna
Italiana di Sociologia, vol. XLI, n.2, 2000, p. 200.
14 E. Pavese, La produzione musicale di Fabrizio De André: un esempio di distribuzione sociale del
processo compositivo, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trento, a.a. 2002-2003, p. 64.

La politique des auteurs aveva affrontato il problema dell’appartenenza al sistema industriale sostenendo che l’autore potesse prosperarvi finché la propria personalità fosse
riconoscibile all’interno dell’opera15. Una visione del regista-autore come «criterio di riferimento della creazione artistica»16 che nella nuova canzone si traduce in una sottolineatura della figura dell’interprete. Legittimo chiedersi, a questo punto, quanto sia lo
stesso sistema industriale a prosperare grazie al performer.
Altro fondamentale punto in comune tra cinema e popular music — centrale per il presente scritto — è il processo collaborativo che conduce alla realizzazione dell’opera. La produzione
discografica, come quella cinematografica, abbandona l’autore solitario e individuale incoraggiando, anche in virtù della nuova tecnologia,17 il lavoro collettivo.
Le due arti viaggiano invece su binari differenti proprio quando si tratta di individuare l’autorialità all’interno del processo produttivo collettivo. Nel cinema, l’autore è sostanzialmente chi finalizza l’opera; nella popular music, chi la inizia: il cantautore, per essere considerato tale, deve avere non l’ultima parola, ma la prima.18 Anche in virtù di ciò, si può constatare quanto la popular music perpetui il mito romantico dell’autore come fondamento originario: un soggetto creatore al centro di un’opera che ne rappresenta pensieri e sentimenti.
L’eco delle teorie post-strutturaliste tuttavia investe anche la musicologia, suggerendo concetti quali intertestualità e social authorship. Da creatori individuali gli autori si fanno «esseri sociali che producono la loro opera con modalità sociali»,19 diventando mediatori nel processo intertestuale fatto di suoni, stili, idee musicali e forme;20 non più in una maniera “espressionista” ma secondo la cosiddetta modalità trasformativa della performance, in cui
questo aspetto sociale della autorialità è ben presente. Grazie all’approccio post-strutturalista, l’autorialità in musica si sgancia progressivamente dal percorso lineare produttoreascoltatore,
abbracciando il più ampio contesto sociale e culturale della produzione.

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15 Cfr. J. Conti, «Politique des Chant-Auteurs: French Auteur Theory and Italian Canzone d’Autore
Compared», in I. Marc, S. Green (eds.), The Singer-Songwriter in Europe: Paradigms, Politics and
Place, New York, Routledge, 2016, p. 39.
16 A. Bazin, op. cit., p. 10.
17 Si pensi ad esempio all’editing, con cui si ricompongono sul supporto magnetico eventi registrati in
tempi e luoghi differenti, da differenti agenti. Le teorie del montaggio, seppur concepite per il cinema,
dimostreranno validità anche per la popular music.
18 Cfr. J. Conti, op. cit., p. 42.
19 N. N. Spivey, The Constructivist Metaphor: Reading, Writing, and the Making of Meaning, San
Diego & London, Academic Press, 1997, p. 213.
20 Cfr. J. Toynbee, Making Popular Music. Musicians, Creativity and Institutions, London, Arnold
Publishers, 2000, p. xiii.

All’origine della creazione artistica non c’è più un soggetto individuale, ma un collettivo,
un momento storico, un luogo geografico, una ricezione.21 C’è, inoltre, un’industria musicale
che ha tutto l’interesse nel marginalizzare la vecchia figura dell’autore in favore del nuovo
performer, la cui immagine pubblica — ben costruita, come vedremo — ha molta più
vendibilità.
Le istanze di autorialità, quindi, devono sempre essere negoziate «tra autore e performer,
tra testo e testo interpretato, tra pubblico ideale e reale».22
Si potrebbe sostenere che, ben prima di Barthes, l’industria discografica abbia già
sentenziato la morte dell’autore, per poi resuscitarlo nelle vesti di performer.
La canzone d’autore come genere musicale?
È sufficiente che la canzone d’autore si autodefinisca tale per diventare, da oggetto,
genere? E che cos’è un genere musicale?
Gli stessi cantautori hanno manifestato i propri dubbi a riguardo. Scrive Roberto
Vecchioni:
Canzone d’autore è un termine infelice e ambiguo […] Autore di che? Di canzoni belle,
serie, colte, impegnate, sociali, stilisticamente nobili. E chi lo dice? […] Cos’è che dà la
patente di “cantautore”? E’ l’esclusività della creazione? E’ la costanza temporale
dell’impegno? […] Un termine dovrebbe per sua natura circoscrivere e quindi segnare dei
limiti: qui invece i confini restano aleatori e indefiniti».23
La musicologia tradizionale, partendo da un’analisi delle strutture sonore, ha affrontato lo
studio dei generi essenzialmente da un punto di vista tecnico-formale. Questo metodo va però
completato con un approccio sociologico capace di rimandare alla presenza di ulteriori e
diverse componenti, variabili a seconda del campo di indagine.
Per Fabbri un genere musicale è un «insieme di eventi musicali, reali e possibili, il cui
svolgimento è governato da un insieme definito di norme socialmente accettate».24 Norme
21 Ivi, op. cit., 63.
22 L. Eckstein, «Torpedoing the authorship of popular music: a reading of Gorillaz’ Feel Good Inc.»,
in Popular Music, n. 28, maggio 2009, pp. 239-240.
23 Prefazione di R. Vecchioni in L. Coveri (a cura di), Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone
d’autore italiana, Novara, Interlinea, 1996.
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non soltanto tecnico-formali, ma anche semiotiche, comportamentali, socio-ideologiche,
giuridico-commerciali, comunitarie. Il genere canzone d’autore nasce quando tali regole si
costituiscono, contestualmente alla nascita di «una comunità della canzone d’autore che
quelle norme è chiamata a riconoscere e a far rispettare».25 Un riconoscimento che non è mai
statico né privo di conflitti interni: la coerenza degli stili musicali è essa stessa qualcosa di
costruito, anche attraverso il dinamismo di questi conflitti.
Autorialità e Autenticità
La canzone d’autore nasce dall’unione tra il potere culturale dell’autorialità e le politiche
di autenticità.26 Un’autenticità rivendicata identificando il cantautore col soggetto parlante
della canzone, il quale vive personalmente — e racconta sinceramente — ciò di cui scrive.
Benché le sue fondamenta siano state demolite dalla critica recente, il linguaggio
dell’autenticità musicale si rifiuta di morire, continuando a proporre una duplice questione:
cosa significa per un soggetto essere fedele a se stesso? E come rappresentare musicalmente
questa soggettività?27
Da un lato, l’autenticità viene proposta come discriminante estetica del prodotto “canzone
d’autore”, distinguendolo in tal modo dalla musica di consumo. Dall’altro, è essa stessa un
prodotto fabbricato dall’industria culturale e discografica:
La figura del cantautore è dunque sin dalla sua nascita un costrutto culturale, una
interpretazione, e giustificazione, di un certo modello di divisione del lavoro e di produzione,
e dunque di prodotto, che nasce per soddisfare [questa] domanda di autenticità della canzone
che stava emergendo in Italia, e che la canzone italiana tradizionale […] non riusciva più a
soddisfare.28
24 F. Fabbri, «A Theory of Musical Genres: Two Applications», in D. Horn, P. Tagg (eds.), Popular
Music Perspectives. Papers from The First International Conference On Popular Music Research,
Amsterdam, June 1981, Göteborg & Exeter, IASPM, 1982, p. 54.
25 Id., «I Generi musicali, una questione da riaprire», in Musica/Realtà, n. 4, Bari, Dedalo, 1981, p. 74.
26 M. Santoro, «What is a cantautore? Distinction and authorship in Italian popular music», in Poetics,
vol. 30, n. 1-2, 2002, p. 129.
27 Cfr. R. Middleton, Voicing the Popular. On the Subjects of Popular Music, Taylor & Francis, 2006,
pp. 217-219.
28 M. Santoro, What is a cantautore?, p. 203.
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Mentre l’ideologia romantica dell’auteur perde forza, l’artificio cosciente diventa la nuova
autenticità. Essa però non è iscritta nella musica, bensì a-scritta dalla ricezione29: la patente
autoriale non può che essere assegnata a partire da una prospettiva esterna e da un accordo
sociale continuamente rinegoziato.30
Autorialità plurale nella produzione di Fabrizio De André
La storia del De André cantautore è storia di scrittura collettiva. Se si eccettua la
primissima parte della sua produzione, grosso modo corrispondente all’epoca Karim31 —
periodo in cui comunque non mancano saltuari sodalizi — Faber32 è sempre circondato da
collaboratori. Circa l’80% dei brani costituenti la sua discografia ufficiale vede la presenza di
coautori. Considerando poi traduzioni e adattamenti — approssimativamente il 12% — ne
risulta che le canzoni scritte individualmente coprano grosso modo l’8% del catalogo.33 Come
testimonia Mark Harris, suo collaboratore storico, in un’intervista concessa al
sottoscritto,«Fabrizio, interamente di pugno suo, ha scritto qualche brano. Una volta mi ha
detto che erano una cinquina gli “originali”, e che considerava Amico fragile il migliore».34
Nondimeno, egli è considerato autore e cantautore per eccellenza.
Il processo compositivo, nella popular music, si articola in una successione di fasi:
ideazione e prima stesura, pre-produzione, produzione, post-produzione. Il primo stadio
rappresenta tipicamente il momento più libero, creativo, e individuale; ma nel caso di
Fabrizio De André spesso e volentieri i collaboratori vengono coinvolti già in questa fase
iniziale.
29 Cfr. R. Middleton, op. cit., p. 205.
30 Cfr. J. Tomatis, «A portrait of the author as an artist», in F. Fabbri, G. Plastino (eds.), Made in Italy,
New York, Routledge, 2013, p. 97.
31 De André sarà legato alla Karim dal 1961 — anno in cui la piccola etichetta viene fondata, fra gli
altri, da suo padre Giuseppe — al 1966, anno del suo fallimento. Il cantautore genovese, assistito da
suo fratello Mauro, avvocato, citerà in giudizio la Karim per mancato pagamento dei diritti d’autore. De
André vincerà la causa, ma il fallimento interverrà prima che la casa discografica possa versare i 40
milioni di lire sanciti dal giudice.
32 Ci si permetterà, nel corso dell’articolo, di utilizzare — ritenendolo comprensibile e condiviso — il
soprannome con cui Paolo Villaggio ribattezzò il suo amico, appellativo frequentemente adottato per
riferirsi al cantautore genovese.
33 Si noti inoltre come alcune musiche dei primi brani di De André siano depositate a suo nome per il
semplice fatto che i collaboratori del tempo non sono iscritti alla Siae. Oltre al caso di Vittorio
Centanaro per La guerra di Piero, si ricordino Per i tuoi larghi occhi, La città vecchia, Il testamento,
scritte insieme a Elvio Monti.
34 M. Harris in F. Brusco, Faber nella bottega di De André. Musica, musicisti, produzione collettiva
nell’opera del più grande cantautore italiano, Roma, Arcana, 2019, p. 54.
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Quali sono i moventi di questa modalità di produzione? Il primo, di natura pratica, va
individuato nel diverso inquadramento contrattuale e nelle consegne cui il cantautore deve
attenersi almeno dal 1966.35 Quando, dopo il successo de La Canzone di Marinella
interpretata da Mina,36 egli capisce di poter vivere di musica, comprende altresì come il
livello produttivo vada tenuto costante, anche grazie all’aiuto di altri autori e professionisti. Il
tutto, conservando comunque una relativa autonomia dai ritmi dell’industria discografica,
pubblicando album senza vincoli di scadenza particolarmente stretti.
Ciò che più spinge Faber a cercare negli altri un dialogo produttivo è senz’altro il
desiderio di novità. Nel corso della sua produzione è evidente la capacità di rinnovamento dal
punto di vista sia lirico sia prettamente musicale, benché non manchi chi, come Fossati,
sostiene un suo disinteresse per quest’ultimo aspetto negli ultimi anni di carriera.37
Le partnership creative di Fabrizio De André non sono fisse nel lungo periodo;
tipicamente, esse durano uno o due progetti. I collaboratori sono per lui interlocutori
indispensabili, con cui egli entra «in un rapporto di reale confronto intellettuale, musicale,
creativo, ma nei termini di una collaborazione che ha lui come dominus».38 Per Piero Milesi,
co-produttore del suo ultimo album, «il collaboratore del momento altro non era che lo
strumento per una nuova scelta stilistica».39
Ogni co-autore aggiunge qualcosa alla paletta espressiva di Faber venendone al contempo
influenzato. Ma in ognuno dei passaggi che scandiscono la produzione, pur nel contesto di
perenne collettività, emerge la leadership di De André. È lui ad avere sempre l’ultima parola.
“Dove finiscono le mie dita”. Le collaborazioni di Faber
È problematico, oltre che inadeguato, tentare di suddividere i contributi compositivi dei
vari collaboratori in due famiglie distinte musica/testi: nell’analisi della canzone non si può
35 Dal 1966 i dischi di De André sono pubblicati dalla Bluebell, che si tramuta nel 1970 in Produttori
Associati. Quest’ultima verrà poi rilevata dalla Ricordi, la quale distribuirà tutti i prodotti discografici di
Fabrizio dal 1978 in poi.
36 Prima nell’album Dedicato a mio padre (dicembre 1967) poi su 45 giri La canzone di Marinella/I
discorsi (1 febbraio 1968).
37 Cfr. A. Sinopoli, Fabrizio De André. Anime salve, Milano, Auditorium, 2006, p. 33.
38 L. Pestalozza, «La canzone dell’altro mondo», in R. Giuffrida, B. Bigoni (eds), Fabrizio De André.
Accordi eretici, Milano, Euresis Edizioni, 1997, p. 169.
39 P. Milesi in R. Bertoncelli, Belin, sei sicuro? Storia e canzoni di Fabrizio De André, Firenze, Giunti,
2003, pp. 159-160.
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scindere il lato letterario da quello melodico, armonico, ritmico, dagli arrangiamenti, e da
tutti gli altri parametri del prodotto finale.
È pur vero che è per la veste musicale che De André sente di aver maggior bisogno di
aiuto, pur riservandosi in ogni caso potere decisionale. Va sottolineato, in tal senso, che nel
suo modus operandi la musica nasce sempre prima del testo, al contrario di quanto si
potrebbe pensare: ciò rende ancor più significativo l’operato dei suoi “bracci destri”.
Già nel periodo Karim, con Vittorio Centanaro, si era avuta una prima significativa
partnership musicale. Il chitarrista genovese, pur assente nei credits di un brano cruciale
come La Guerra di Piero, ne partorisce l’impianto strumentale, reminiscente di una giga di
Jakob Froberger (1816-1867). Ancor più profondamente, con il suo bagaglio culturale e
musicale, espande l’orizzonte deandreiano aggiungendo alla dominante influenza
brassensiana le suggestioni della musica rinascimentale e medievale, sempre di stampo
francese.
I sodalizi che di volta in volta Faber intrattiene vanno al di là del semplice rapporto
lavorativo. Come dirà Massimo Bubola, «con Fabrizio non lavori ma vivi: mi ha insegnato
botanica, storia medievale, gastronomia […] Avevo una gran voglia di scrivere canzoni, lui
sembrava avesse molti altri interessi».40
Una forma di convivenza, più che di collaborazione, come quella col poeta Riccardo
Mannerini41, co-autore nel 1968 del Cantico dei Drogati: una scrittura faccia a faccia che
continuerà per Senza Orario Senza Bandiera dei New Trolls, dello stesso anno. Anche sul
versante delle parole, quindi, De André si apre alle idee dei suoi partner, senza alcun timore
di sminuire la sua statura di autore. Dopo Mannerini — prima di lui già Paolo Villaggio — la
trama dei suoi versi sarà arricchita dalle liriche dei vari Bentivoglio, De Gregori, Bubola e
Fossati.
Gian Piero Reverberi è il primo a condividere con Faber l’intestazione di tutti i brani di un
LP, quel Tutti morimmo a stento (1968) considerato primo vero concept album italiano. A lui
vengono accreditate le musiche, ma anche in questo caso non c’è una divisione netta del
lavoro. Dichiara Reverberi: «Fabrizio non era in grado di reggere da solo tutta l’architettura.
Lì c’è un mio intervento profondo».42 Un’operazione sulla struttura stessa dell’opera quindi, a
cominciare dall’impostazione dell’album attorno a un’unica tonalità centrale — Cantata in Si
40 M. Bubola in A. Franchini, Uomini e donne di Fabrizio De André, Genova, Fratelli Frilli Editori, 1997,
p. 84.
41 I due condivideranno un monolocale in Salita Sant’Agostino, dal 1959 al 1964.
42 G. P. Reverberi in R. Bertoncelli, op. cit., 76.
10
minore per coro e orchestra è il sottotitolo del disco — scelta con attenzione per sfruttare al
meglio il registro vocale dell’interprete.43
In altri casi, non è un’idea musicale o un verso a essere suggerito da altri, ma lo stesso
“soggetto” per un’opera a tema. Ad esempio, l’idea di un disco sui vangeli apocrifi da cui
scaturirà La buona novella (1970), viene in realtà da Roberto Dané, il quale la propone
dapprima a Duilio Del Prete. Allo stesso modo, Non al denaro non all’amore né al cielo
(1971) nascerà inizialmente come progetto per Michele Maisano. È evidente dunque come
l’apporto di Dané vada ben oltre quello di arrangiatore per il quale è ufficialmente
accreditato.
Ritornando ai musicisti, la collaborazione con Piovani per Non al denaro non all’amore né
al cielo (1971) e Storia di un impiegato (1973) ha un impatto determinante anche dal punto di
vista strumentale e timbrico, con un primo deciso allontanamento dal sound classico di De
André, fino a quel punto ancorato all’influsso francese. Specie nel secondo album — dove
Faber spartisce i credits per i testi con Bentivoglio e per le musiche con lo stesso Piovani —
ci si apre a un linguaggio quasi prog, con corposo utilizzo di sintetizzatori. L’atmosfera, per
lunghi tratti, è quella della musica da film: la perizia del giovane compositore romano in tale
ambito dà vita a una colonna sonora che da sola riesce a evocare le scene narrate44. un seme
che darà i suoi frutti anche in album molto successivi — come Anime salve — in cui De
André cercherà coscientemente una certa qualità descrittiva della musica.
A metà degli anni Settanta Faber inizia a cercare il confronto coi suoi “pari”: non
compositori o arrangiatori, ma altri cantautori. De Gregori lavora con lui per una breve
stagione, quella di Volume VIII (1975), firmandone in solitudine un brano, Le storie di ieri.
Dopo di lui è la volta di Massimo Bubola che nel 1976 porta con sé in dote alcune canzoni
già abbozzate — Sally, Andrea, Rimini — destinate a convergere nell’LP seguente, Rimini
(1978). Dal grandangolo del concept album l’obiettivo ritorna al primissimo piano della
canzone, invertendo significativamente la polarità tonale dal minore al maggiore.45
43 Ivi, p. 80. Reverberi si dirà in seguito assolutamente contrario all’innalzamento delle tonalità che
caratterizzano il “secondo” De André, causato dall’influenza dei vari Bubola, Pagani e Fossati.
44 Piovani, allora poco più che ventenne, ha da poco iniziato la sua attività di compositore di colonne
sonore. Dopo gli esordi accanto a Silvano Agosti, con cui condivide l’appartenenza al collettivo
universitario, fa seguito nel 1972 – esattamente a metà tra i due dischi con Faber – la collaborazione
con Marco Bellocchio per il film Nel nome del padre. In Non al denaro non all’amore né al cielo
(1971), a sostenere queste atmosfere contribuiscono tra gli altri due membri dell’orchestra di Ennio
Morricone: il chitarrista Bruno Battisti D’Amario e soprattutto la cantante Edda Dell’Orso, a cui è
affidata la chiusura del disco. Difficile, ascoltandola ne Il suonatore Jones e in Un chimico, non
pensare alle arie del film Giù la testa, immortalate in quello stesso anno proprio dalla sua voce.
45 Cfr. F. Fabbri, Il suonatore Faber, p. 33. Il periodo cui ci si riferisce (1975-1981) segna un
significativo ribaltamento del linguaggio tonale di De André. Se fino a quel punto il modo minore
11
I due giovani autori imprimono al percorso deandreiano una svolta verso lidi anglosassoni
ancor più netta rispetto all’indirizzo proposto da Piovani; un mutamento di direzione
rafforzato dagli arrangiatori di quei due album, rispettivamente Tony Mimms e Mark Harris.
Si va verso un cantautorato rock, preludio alla collaborazione con la PFM.
Il tour che promuove il lavoro successivo, Fabrizio De André (detto L’Indiano, 1981)
sancisce il passaggio di consegne fra Massimo Bubola e Mauro Pagani: sarà il sodalizio
artistico e umano più lungo e significativo. Il polistrumentista bresciano inizia a collaborare
sul palco per ritrovarsi ben presto al tavolo del co-autore. Da lì egli traccerà un nuovo cambio
di rotta, riportando in pieno Mediterraneo la navigazione di De André con quello che ne sarà
celebrato come il capolavoro, Crêuza de mä (1984).
Si torna a una divisione dei compiti quasi perfetta, assente dai tempi di Reverberi.
L’intelaiatura musicale è quasi completamente realizzata da Pagani, prima ancora
dell’ideazione del progetto; solo in seguito, adattandosi a questa, De André aggiunge il testo.
Pur affidandosi all’ex PFM per la veste musicale, Faber mantiene sempre la leadership
decisionale. Dirà Pagani: «Crêuza de mä sono in pratica i provini del disco […] Fabrizio si è
messo tra me e la mia musica e mi ha impedito di rovinarla. Ha impedito che la sindrome da
studio rovinasse l’attimo della creazione».46 Pagani inoltre sarà fondamentale per la scelta del
genovese come lingua del disco e per altre opzioni stilistiche canore, spingendo la voce di
Faber su registri più alti e dipandanola su linee melodiche più articolate.
Stesso collaboratore, ma diverse modalità lavorative per Le nuvole (1990), effettivamente
composto a quattro mani: «In Creuza de mä la nostra somma era stata semplicemente musica
(mia) più parole (sue); due blocchi messi insieme. Qui invece lui entrò nella musica e io
penetrai nei testi».47
In quello stesso periodo ha inizio l’ultima delle grandi collaborazioni di scrittura di
Fabrizio De André, quella con Ivano Fossati. Una situazione meno intensa rispetto alla
precedente: un lavoro a stretto contatto nella fase di scrittura, ma sospeso prima della vera e
propria produzione. Ancora una volta, un partner cerca di condurre Faber verso un certo
linguaggio, una certa impronta culturale. Fossati tenta di dettare una nuova virata verso ovest,
caratterizzava il 68% dei brani, da Volume VIII a L’Indiano soltanto il 15% delle canzoni è in tonalità
minore. La percentuale risalirà dal 1982 al 1996 (35%).
46 M. Pagani in F. Russo, Creuza de mä di Fabrizio De André e Mauro Pagani: il suono della parola, la
parola del suono, tesi di laurea non pubblicata, Facoltà di Scienze della formazione, arti e spettacolo,
Università di Torino, a.a. 2001/2002, pp. 143-144.
47 Id. in R. Bertoncelli, op. cit., p. 134.
12
ma il suo collega si rivela irriducibile nel voler proseguire l’itinerario mediterraneo
dell’ultimo decennio.
Dopo l’inevitabile separazione sarà Piero Milesi a condurre le operazioni di produzione
per Anime salve (1996): un nuovo potenziale sodalizio tristemente interrotto dalla scomparsa
del cantautore.
Fabrizio De André autore collettivo
Le considerazioni sul processo sopra analizzato non mettono in discussione la qualità
autoriale, né la “paternità” dell’opera. Esse mirano piuttosto a superare la pretesa di
rintracciare un unico proprietario dell’opera stessa, supposto prerequisito per poter parlare di
autorialità.
La produzione musicale di massa si snoda attraverso alcuni fondamentali dualismi che ne
ribadiscono l’inevitabile pluralità48. Tra questi, a caratterizzare la popular music, vi è
innanzitutto il confronto tra scrittura e oralità, o meglio tra due tipi di scrittura: quella
“tradizionale”, su carta, e la moderna scrittura musicale su nastro magnetico. Una
metamorfosi dell’originale in cui alla partitura subentra la registrazione, prodotta grazie ad
una pluralità di attori i cui interventi micro-compositivi — pur essendo a volte così esigui da
non consentire una vera e propria identificazione personale — influiscono sullo stesso
processo generativo dell’opera.49 Ne consegue che, indipendentemente da come sia avvenuto
il primo momento creativo, «chi lavora nello studio di registrazione è il maggior responsabile
della forma effettiva con la quale la musica giunge ai suoi ascoltatori».50 Tanto più che la
divisione dei ruoli nello studio di registrazione, a differenza di quanto accade nel cinema, è
tutt’altro che ferrea.
La registrazione, a sua volta, si pone in rapporto dualistico con l’interpretazione, nel senso
tradizionale di esecuzione dal vivo. Pur nella difficoltà di stabilire confini netti tra i due
momenti nell’ambito popular music, va segnalata in De André l’inderogabile opzione per una
resa assolutamente fedele all’originale nei live. Una rivendicazione di autenticità dell’opera
così come registrata, nonché della propria chiarissima intenzione d’autore.
48 Cfr. A. Sinopoli, op. cit., pp. 50 segg.
49 Cfr. E. Pavese, op. cit., p. 89.
50 F. Fabbri, Il suono in cui viviamo. Inventare, produrre e diffondere musica, Milano, Feltrinelli, 1996,
p. 96.
13
Se è intuitivo tracciare uno schema della cooperazione all’interno dello studio di
registrazione, nel caso di Fabrizio De André si è già osservata la rilevanza del processo
collaborativo nella primissima fase di scrittura. Prendendo spunto dalle osservazioni fatte da
Sorce Keller51 sull’opera di Duke Ellington, possiamo individuare, in tale processo, tre livelli.
Il primo è quello della specificità. In esso, si evidenziano i segni musicali specifici della
produzione di un artista confrontandoli con quelli tratti da generi e tradizioni di riferimento.
Questi ultimi linguaggi, abbiamo visto, variano con l’avvicendarsi dei più importanti sodalizi
compositivi del cantautore genovese. Nel pur breve excursus delle sue partnership, abbiamo
segnalato come polarità principali — ognuna dominante un arco approssimativo di un
decennio, dagli anni Sessanta alla prima metà dei Novanta — quella francese, quella angloamericana
e quella mediterranea. L’ultimo De André sintetizza le estetiche di questi tre
periodi, unificando il tutto con i suoi segni distintivi — melodici, armonici, ritmici,
interpretativi — costanti lungo tutta la sua produzione.
Il secondo livello è quello di collaborazione continua. Nel caso di Ellington, Billy
Strayhorn lavora «a tutti gli effetti come co-compositore tuttofare (a volte ricevendone
credito e a volte no)».52 Più difficile rintracciare tale continuità in De André, ma si può
facilmente pensare a Mauro Pagani: anch’egli per circa un decennio è co-autore e
strumentista tuttofare; anch’egli non sempre viene ricompensato dal credito che gli spetta.
Terzo e ultimo livello, il rapporto con i musicisti e la formazione di gruppi creativi, sistemi
collettivi «in cui operano sinergicamente personalità fantasiose e personalità concrete,
ciascuna apportando il meglio di sé, in un clima reso entusiasta da un capo carismatico e da
una missione condivisa».53 Se la figura di De André ricopre indubbiamente il ruolo di “capo
carismatico” del proprio gruppo creativo, i membri di quest’ultimo incidono fortemente —
pur con modalità e misure diverse — sul prodotto finale.
La musica, come del resto tutte le arti contemporanee, non può prescindere dalla pluralità.
A seconda dei contesti di riferimento, solo a una ristretta cerchia viene assegnato il titolo di
autore. Scrive Howard Becker:
51 M. Sorce Keller, «Siamo tutti compositori! Alcune riflessioni sulla distribuzione sociale del processo
compositivo», in Annuario svizzero di musicologia/ nuova serie, n.18, 1998, pp. 259-311.
52 Ivi, p. 264.
53 D. De Masi, La fantasia e la concretezza. Creatività individuale e di gruppo, Milano, Rizzoli, 2003, p.
582.
14
Immaginiamo, estremizzando, un individuo che possieda tutte le capacità tipicamente
necessarie per svolgere l’attività artistica: che sappia concepire l’idea del lavoro, che sappia
fare ogni cosa necessaria (compresi i materiali da utilizzare), inventare ogni cosa,
rappresentarla, tutto senza l’assistenza o l’aiuto di nessun altro. Possiamo solamente
immaginare questa cosa perché tutte le arti che noi conosciamo comportano elaborati legami
di collaborazione […] Il carattere dell’arte impone una naturale divisione del lavoro; la
divisione risulta sempre da una consensuale definizione della situazione.54
Le questioni strettamente inerenti al copyright esulano dall’oggetto di questo scritto.
Tuttavia non si può tacere di quanto esse siano ad un tempo causa e conseguenza del processo
collettivo di produzione — col quale il più delle volte entrano in contraddizione — e della
sua gestione da parte dell’industria discografica.
Nella vicenda in esame, è chiara la volontà della casa discografica di costruire attorno a
Fabrizio De André l’immagine di autore unico. Di questa articolata costruzione parleremo a
breve; qui ci preme sottolineare soltanto la discrasia evidente allorché, in album come Crêuza
de mä, Le nuvole, Anime salve — ma questo avviene anche in molti LP precedenti55 — ogni
singolo brano sia accreditato a due autori, mentre l’album in sé sia intestato al solo De André.
Per dirla con Jason Toynbee, semplicemente «la legge sul copyright non si sposa con la
pratica della popular music».56
Un regista musicale
Se nella fase di pre-produzione De André si lascia permeare a fondo dalle intenzioni dei
suoi sodali, una volta entrati in studio di registrazione il suo potere decisionale si fa più
risoluto. «Il nostro diventa il ruolo del regista»,57 diceva di se stesso e della sua categoria; una
visione confermata da chi lavorava al suo fianco, a cominciare da Mauro Pagani:
54 H. S. Becker, «Art as collective action», in American Sociological Review, vol. 39, n. 6, 1974, pp.
767-768.
55 Gli album in cui De André condivide i credits per tutte le tracce sono: Non al denaro non all’amore
né al cielo (1971), Storia di un impiegato (1973), Rimini (1978), Fabrizio De André (1981), Crêuza de
mä (1984), Anime salve (1996). Nella sostanza, anche Canzoni (1974) — contenente numerose
traduzioni e adattamenti — Volume VIII (1975) e Le nuvole (1990) sono album scritti a più mani.
56 J. Toynbee, «Musicians», in S. Frith, L. Marshall (eds.), Music and Copyright, Edinburgh, Edinburgh
University Press, 2004, p. 127.
57 F. De André in A. Sinopoli, op. cit., p. 50.
15
Era molto bravo a far lavorare gli altri, cioè, la dote principale di Fabrizio era come
ricavare il meglio delle persone […] a volte usava metodi che erano un po’ dolorosi per le
persone stesse…anche con me…perché lui, nella sua ansia di perfezione ti spremeva, fino a
quando non aveva ricavato il meglio […]. Lui era principalmente un regista. Io sono stato coproduttore
di due suoi dischi ma anche compositore. Quando si trattava di musica il
produttore ero io…io componevo, e lui faceva da regista a un dato compositivo, mi diceva
«no, fai così fai cosà»…58
Anche nell’ultimo album, ricorda Fossati, la regia di Faber si pone su un gradino
gerarchico più alto rispetto al produttore “professionista”: «Sì, c’è il lavoro di Milesi ma era
Fabrizio che guidava, che dirigeva. Magari non interveniva sulla partitura ma l’idea generale
e le linee portanti sono sue».59
Per De Gregori, il suo collega «è stato soprattutto un grande organizzatore di materiali
culturali, da Spoon River ai vangeli apocrifi, ma unificava tutto con quella voce
straordinaria».60 Dello stesso avviso Roberto Dané, per il quale il più grande talento di De
André «è stato nel mettere assieme, con coerenza, tutto ciò che ha trovato. Prima di tutto un
percorso, inventato o trovato; poi una coerente composizione degli elementi finalizzati a
questo progetto».61
In De André, coerenza e omogeneità derivano da uno stile di fondo, da una vera e propria
ideologia e da una fortissima personalità artistica che emerge sempre, lungo tutto il processo
collaborativo. Per tornare a Bazin, non un semplice metteur en scène, ma un vero regista.
In quanto tale, egli è autore «a più mani»,62 autore collettivo; ma è anche interprete,
performer, personaggio pubblico. È questo a segnare la differenza tra un music maker e un
regista; ed è su tale divario che Faber, come gli altri membri della famiglia cantautoriale,
conserva tuttora la sua immagine di geniale e autentico creatore individuale. A riunire i fili
del discorso, ci pensa un ultimo elemento del circuito comunicativo.
La canzone come atto di comunicazione. Il ruolo della ricezione
58 M. Pagani in E. Pavese, op. cit. p. 170.
59 I. Fossati in R. Bertoncelli, op. cit., p. 145.
60 F. De Gregori in Il Venerdì di Repubblica, 25 marzo 2005.
61 R. Dané in R. Bertoncelli, op. cit., p. 86.
62 F. Fabbri, Il suonatore Faber, p. 34.
16
Anche nella popular music, la funzione-autore crea un senso di unità. Ma è nella ricezione
che tale unità si ritrova pienamente ricomposta. Il ruolo dell’audience diventa centrale,
quando esaminiamo la produzione musicale come forma di comunicazione: essa stessa,
assieme agli agenti che abbiamo menzionato finora, diventa interprete attiva, proiettando
significati sui testi musicali.63
Per coglierne i segni bisogna anzitutto superare il cosiddetto transmission model (mittentemedium-
ricevente),64 in cui l’opera è ancora vista come un oggetto permanente attraverso il
quale le intenzioni dell’autore-soggetto vengono trasmesse alla ricezione. Adottando invece il
modello della comunicazione, inteso come mappa di significati condivisi da determinati
gruppi di persone, possiamo rilevare una costante produzione di nuovi significati risultanti
dall’interazione tra quelli storicamente dati e quelli creati individualmente.65 Interpretando le
opere come polisemiche e intertestuali, in definitiva, non è più plausibile affermare che un
testo abbia un unico significato, codificato dal suo autore:66
Dati alcuni oggetti o forme di comportamento che all’interno di una cultura sono
potenzialmente classificabili come fatti “artistici”, allora l’esatta loro collocazione in
gerarchie di valore (il loro “senso” e “significato”) in un dato momento storico è il risultato di
un processo collettivo di costruzione di quel “senso” e di quel “significato”.67
A questa costruzione plurale concorre in maniera decisiva la ricezione. Attraverso
l’ascolto, sua operazione cardine, essa filtra e organizza il dato sonoro, attribuendogli un
significato. Bisognerebbe forse parlare di ricezioni, al plurale: non un corpo unico e
omogeneo, ma tanti modi di ascoltare la musica quanti sono gli ascoltatori. «Ogni fruizione di
un’opera è una interpretazione ed una esecuzione, poiché in ogni fruizione l’opera rivive in
una prospettiva originale»:68 lungi dall’essere ricettore passivo, il fruitore contribuisce a pieno
titolo alla composizione dell’opera, al messaggio musicale nel suo senso più pieno.
63 A. F. Moore, «Authenticity as Authentication», in Popular Music, 21/2, 2002, p. 210.
64 Cfr. L. Ahonen, Mediated Music Makers: Constructing Author Images in Popular Music, Finnish
Society for Ethnomusicology, vol. 16, 2007, p. 171.
65 Cfr. L. Grossberg et al., MediaMaking. Mass Media in a Popular Culture, Thousand Oaks, London &
New Delhi, Sage Publications, 1998, pp. 17–22.
66 Ivi, pp. 153-155.
67 M. Sorce Keller, op. cit., p. 19.
68 U. Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Milano, Bompiani,
1962, p. 26.
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Conclusioni. L’autore e la sua immagine. Costruzione e ricostruzione
Il significato veicolato dall’oggetto canzone viene convenzionalmente attribuito al
performer, l’interprete69, associato al suo stile e alla sua immagine; basti pensare a quante
volte una stessa canzone, cantata da due artisti distinti, venga percepita dal pubblico in
maniera differente.
L’immagine dell’autore, basilarmente, è l’idea che di esso si forma la ricezione, al termine
di un percorso di costruzione e in base al contesto socio-culturale di riferimento. È
un’immagine mai statica, sempre aperta ai cambi di contesto; lo stesso vale di conseguenza
per il concetto di authorship. Quest’ultimo è in costante ridefinizione all’interno di un
continuo fenomeno di costruzione sociale, nel quale si ritrovano questioni culturali,
economiche e tecnologiche.70
Rintracciare le tappe di questo processo aiuta a definire un concetto alternativo di
authorship musicale che tenga conto anche dei media e dell’audience.
Laura Ahonen71 distingue tre tipi di author image, in simbiotica relazione fra loro:
a. presented: l’immagine costruita da artista e marketing. Nel caso di De André,
l’industria culturale vuole certamente che egli sia identificato come autore individuale. Si
inserisce in questo disegno, come abbiamo visto, la scelta di intestare unicamente a lui i vari
album in cui tutti i singoli brani sono accreditati a due o più autori. Una scelta peraltro
considerata ovvia, in base al primato dell’interprete.
b. mediated: costruita dai media, agenti attivi. Ad essi si deve gran parte dell’aura che
tuttora avvolge Faber, cantautore per antonomasia, capace anzi di travalicare la categoria fino
a essere considerato poeta a tutti gli effetti. Il suo negarsi a lungo alla performance dal vivo e
agli stessi mass media, la sua biografia, specie nei risvolti più drammatici — l’alcolismo, il
rapimento — sono altrettanti tasselli di questo mosaico auratico. L’immagine che ne risulta si
fonda sui già citati valori di originalità e, soprattutto, autenticità. Essi risultano corroborati
anche da episodi meno drammatici, quali i tanti scontri con la censura da Carlo Martello in
poi, e dalla stessa “invisibilità” di Fabrizio, che rifugge a lungo soprattutto il mezzo
televisivo. Afferma Massimo Spinosa, collaboratore musicale di Faber:
69 O agli interpreti, nel caso dei gruppi.
70 Cfr. J. Toynbee, Making Popular Music, pp. 102-110.
71 L. Ahonen, op. cit., pp. 18 segg.
18
Il motivo della sua “santificazione” è che lui, in virtù delle sue origini agiate, poteva
permettersi di rifiutare qualsiasi apparizione. Il fatto che lui non si sia mai “mischiato”
grossolanamente ha contribuito al fatto che fosse elevato a emblema della cultura. Una cosa
che non è avvenuta per altri artisti che non ci sono più, come Battisti o come Dalla. Un po’
per Pino Daniele, per ragioni “sangennaristiche”, forse [ride]. La sua immagine di persona che
non si piegava al mercato gli è valsa la sua aura.72
c. compiled: è quella costruita dalla ricezione, ricomponendo gli elementi delle due
prime categorie e sintetizzandoli in un nuovo tipo di immagine.
Ad assegnare il titolo di autore, alla fine di questo percorso, è dunque la ricezione. Essa ha
una sua estetica, la quale appare ancora legata a certe traiettorie “romantiche”. Come in una
volontaria sospensione dell’incredulità, il pubblico della popular music sembra dare per
scontata la profondità soggettiva e l’integrità dell’artista, interpretandone le opere come
portatrici di un messaggio genuino relativo a sentimenti altrettanto genuini o ad un’esperienza
biografica diretta.73 L’estetica della produzione si muove invece su binari postmoderni, fatti di
autorialità collettiva, di attenzione alle vicende economiche e di costruzione mediatica
dell’immagine.
Le dinamiche dell’industria culturale fanno sì che i suoi prodotti vengano quindi escogitati
in larga misura come calcolate simulazioni postmoderne della autenticità romantica richiesta
dal mercato. Nell’opera del primo De André, ma in generale in tutto il periodo iniziale della
canzone d’autore, questo tipo di autenticità viene assicurato dall’importazione di valori
riferibili al folk: tradizione, comunità, sincerità, occultamento della tecnologia musicale, per
non citare che i principali.74
Grande merito del cantautore genovese è di rinnovare questi valori anche nella seconda
fase della sua carriera, codificando nuovi idiomi — che da folk potrebbero ribattezzarsi world
— altrettanto capaci di veicolare autenticità. Dopo Crêuza de mä, essi vengono riproposti,
seppur diversamente declinati, lungo tutto l’arco conclusivo della produzione deandreiana,
soddisfacendo con altissima qualità artistica la domanda di espressione soggettiva enunciata
dalla fruizione.
72 M. Spinosa in F. Brusco, op. cit., p. 140.
73 Cfr. L. Eckstein, op. cit., p. 242.
74 Cfr. K. Keightley, «Reconsidering rock», in S. Frith et al. (eds.), The Cambridge Companion to Pop
and Rock, Cambridge, Cambridge University Press, 2001, pp. 109–142.
19
La via dell’autenticità romantica mette in atto un riavvicinamento tra l’estetica della
produzione e quella della ricezione. In altri percorsi invece, come quello dell’autenticità
modernista, i valori vengono importati dalla art music — sperimentazione, elitarismo, ironia,
celebrazione della tecnologia — allargando le distanze tra le due estetiche.75
È da questa divergenza, da questa dinamica di contrazione ed espansione tra le due sfere
che nascono a mio avviso i maggiori ostacoli a una visione autoriale pienamente condivisa.
La canzone, in quanto opera d’arte, in quanto testo, è fatta di scritture sempre molteplici.
Una molteplicità, riprendendo Barthes, destinata a ricomporsi solo al momento della
fruizione: «l’unità di un testo non sta nella sua origine ma nella sua destinazione».76
In questa destinazione, quanto mai eterogenea, le opere associate all’immagine del più
grande cantautore italiano di sempre vengono percepite come individuali in quanto unitarie.
Un corpus organico, coerente e sincero, indipendentemente dall’eterogeneità dei suoi
componenti.
Per l’ascoltatore, «chi parla» importa eccome. Fabrizio De André, attraverso la sua opera,
il suo pensiero, il suo messaggio e la sua immagine, parla ancora; lo fa per sé, per i suoi
collaboratori, per la sua audience. Parla, in maniera autorevole, con più voci. Con una sola
invece, canta, e con quella voce riunisce in maniera sublime tutti i frammenti di un discorso
sempre vivo.
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75 Ibidem.
76 R. Barthes, op. cit., p. 56.
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