E. Calamari, Jerome Bruner. Cent’anni di psicologia, Edizioni ETS, 2018


Recensione di R. Roni.

E. Calamari, Jerome Bruner. Cent’anni di psicologia, Edizioni ETS, 2018

Elena Calamari da anni indaga, con rigore metodologico, su temi rilevanti di psicologia generale e della personalità, come gli stili cognitivi e la memoria. Con questo suo nuovo libro, dedicato allo studio dell’intera opera di Jerome Bruner – una personalità di spicco della psicologia novecentesca che, tra l’altro, Calamari ebbe modo di frequentare personalmente in più occasioni – offre un contributo originale e innovativo alle scienze umane e finanche al dialogo interdisciplinare. Calamari ricostruisce, storicamente e teoricamente, l’evoluzione intellettuale di Bruner – dagli anni Trenta del Novecento al 5 giugno 2016, data della sua scomparsa – articolando la propria analisi intorno a tre nuclei fondamentali: la mente, il linguaggio e la narrazione, fino ad includere, nel contempo, anche l’istruzione scolastica. Più in particolare, in questo libro l’autrice rivisita, dettagliatamente e con ricchezza di dati, l’intensa attività di ricerca di Bruner condotta prevalentemente tra Harvard e Oxford – dedicata allo studio della percezione, dell’apprendimento, del pensiero e del linguaggio. Calamari focalizza giustamente l’attenzione sul passaggio di Bruner dal paradigma comportamentista (inaugurato dagli studi di Watson in America), al quale è possibile ricondurre la prima fase delle sue ricerche sperimentali, alla “rivoluzione” cognitiva del secondo periodo – tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Ottanta si collocano anche i contributi fondamentali di Neisser e Gardner – fino a recepire la prospettiva socio-culturale. Ora, tra il primo Bruner – concentrato prevalentemente sul lavoro empirico e sperimentale – e il secondo Bruner – che ha dato forma e contenuto ad una “psicologia generale culturalista” – vediamo realizzarsi, come già si rileva dalla sua autobiografia intellettuale del 1983, In Search of Mind, giustamente richiamata, una ricca serie di “contaminazioni” teoriche. Calamari ricorda, ad esempio, l’influenza decisiva esercitata da Tolman sul primo Bruner con gli esperimenti sul comportamento animale, oppure, in seguito, quella di Miller, con il suo modello matematico e probabilistico del linguaggio. Sulla base di questi riscontri, Calamari mette bene in chiaro come, da un’attenta rilettura dell’opera di Bruner, emerga “una concezione dell’uomo complessa e problematica”, quella appunto del soggetto individuale dotato di coscienza riflessiva, “che ricostruisce la propria vicenda e la racconta con gli strumenti del linguaggio” (p. 17). Per un verso, dunque, nel primo Bruner si annuncia già l’esigenza di un superamento dell’approccio strettamente scientista della psicologia tradizionale, esigenza che lo porta a rivalutare la comunicazione intersoggettiva a partire dall’analisi dello sviluppo del linguaggio nei bambini; dall’altro, negli anni Ottanta, con la messa in luce della dicotomia tra pensiero logico-scientifico e narrativo, Bruner può elaborare una prospettiva originale che va verso una psicologia ecologica e culturale, al cui interno troviamo la folk psychology, ovvero una psicologia culturale attenta ai contesti che a monte ha il contributo pionieristico di Wundt. Centrale, in questo quadro, l’attenzione riservata da Bruner al tema del linguaggio che gli consente di approdare alla psicologia cognitiva (p. 33), al fine di inquadrare il funzionamento della mente all’interno di relazioni significative con la realtà fisica e sociale. Di questa svolta fondamentale che anticipa la rivoluzione cognitivista degli anni Sessanta è riprova il New Look on Perception, un nuovo percorso di indagine concepito proprio in reazione al comportamentismo radicale. In questo periodo, Bruner elabora una teoria della percezione intesa come dipendente dalla familiarità con l’esperienza precedente, dalla personalità individuale e dalle appartenenze culturali e linguistiche, al cui interno si colloca l’incontro con i gestaltisti (da Koffka a Köhler), e che si delinea attraverso una lunga serie di esperimenti sulla percezione – Calamari ricorda, tra l’altro, che Kuhn fu attratto dall’esperimento di Bruner e Postman delle “carte truccate” (1949), avendo assistito alla nascita del New Look (p. 53) – trattandosi di studi orientati a superare l’immagine dell’uomo come “passivo recettore e ripetitore di stimoli provenienti dall’esterno”, verso una sua ridefinizione come “attivo costruttore e selettore dell’esperienza” (p. 65). Già scettico verso l’utilità dei modelli computazionali agli albori della rivoluzione cognitivista, con A Study of Thinking (1956), Bruner si avvicina progressivamente alla ricerca sullo sviluppo. Non solo, come giustamente sottolinea Calamari, nel contempo, cresce anche l’interesse di Bruner per i processi di insegnamento e apprendimento, per diventare in seguito un interlocutore privilegiato delle politiche scolastiche statunitensi (pp. 114-120).
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, Bruner si pone sulla scia dei lavori di Chomsky, Piaget e Vygotskij, al fine di approfondire la dimensione linguistica del pensiero, anche soprattutto grazie all’influenza del linguista russo Jakobson che contribuisce ad avvicinarlo a posizioni diverse da quelle di Chomsky (p. 154).
Prosegue così, a partire dagli Settanta fino agli inizi degli anni Ottanta, oltre l’innatismo chomskiano, verso il modello “socio-interazionista” oggi prevalente, con la messa a fuoco delle interazioni diadiche (madre/bambino) e tradiche, che includono i riferimenti ad oggetti e preludono alla condivisione semantica (p. 127), fino a trovare, tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi negli degli anni Novanta, nella teoria della letteratura, il concetto del sé narratore, dando così una curvatura interdisciplinare alla propria indagine, includendo in particolare l’antropologia (pp. 169-189). Non da ultimo, viene giustamente ricordata anche l’influenza del pragmatista Peirce che consente a Bruner di mettere il concetto di “interpretante” al centro della sua teoria del significato (p. 215). Grazie a questo nuovo libro di Calamari, è possibile dunque rileggere la vita e le opere di Bruner secondo un’ottica di “pluralismo ermeneutico” che evita nel contempo gli eccessi relativistici – a tal riguardo occorre ricordare Goodman, un punto di riferimento fondamentale del secondo Bruner – e giudica le interpretazioni in base alla loro correttezza (pp. 196-201). Tutto questo per riconoscere che, in ultima istanza, la narrazione svolge una funzione culturale imprescindibile nel formulare modelli di comportamento e di intenzionalità che potranno dare il senso alla propria esperienza del mondo e della società così come all’esperienza di se stessi.

Categoria: Rivista n° 7 01/2019 | RSS 2.0

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