Luti Viola, “Joyce e Svevo, storia di un sodalizio tra letteratura e amicizia”


Viola Luti

Joyce e Svevo, storia di un sodalizio tra letteratura e amicizia

Il rapporto tra Joyce e Svevo ha incuriosito critici e appassionati di narrativa del Novecento non solo per le contaminazioni stilistiche e concettuali, ma per la maturazione di curiosità anche politiche nate in contesti geografici dove sono convissuti irredentismo e socialismo.
Joyce incontra Svevo a Trieste nel 1907 nell’ambito della sua attività di insegnante di inglese presso la Berlitz School. Un gioco di circostanze, un’astuzia della sorte che porta Joyce, come sostiene Giancarlo Mazzacurati, “ad imbattersi […] nel quasi cinquantenne signor Ettore Schmitz, ammalato anni addietro di letteratura, ma ora bisognoso soltanto di qualche lezione di inglese commerciale, per certi suoi traffici di vernici, fra Trieste, Venezia e Londra.”
Una combinazione, un miracolo che avrebbe cambiato il volto e la storia dell’architettura letteraria italiana ed europea. Non solo per le atmosfere estetiche e concettuali, le epifanie intese come lettura degli eventi luminosi del puro esistere, il superamento dello spazio e del tempo (odissee della staticità e realizzate nel labirinto statico delle città murate in secondi che diventano secoli, vite la cui realizzazione deriva dalla sospensione e dalla frammentazione di un segmento di azione in un numero infinito di movimenti), ma anche per i caratteri di una scrittura che tende ad adattarsi al ritmo antiretorico delle vicende. È, infatti, con Joyce e con Svevo che si apre un nuovo capitolo nella linea evolutiva del romanzo della modernità. Quello della rottura formale. L’autore, sia nell’Ulysses sia ne La coscienza di Zeno, è voce individuale ed espressione di una coralità fatta di segni, di luoghi, di dettagli, di ingombro di situazioni e di “colori”. Dal rapporto-confronto tra il giovane e il maturo scrittore nasce una “contaminazione” che dà vita ad una dimensione narrativa fatta di linearità frante, di passaggi repentini, quasi cubistici, dall’intimistico all’esteriore, dall’infinitamente piccolo al maestoso, dal contornato allo sfumato.
La coscienza di Zeno nasce negli anni fra la fine della prima Guerra Mondiale e il 1923, data della pubblicazione.
Il romanzo si presenta come autobiografico. Le memorie vere e proprie sono rappresentate dai primi due capitoli, Prefazione e Preambolo, e dall’ultimo intitolato Psicoanalisi.
L’opera narrativa si sviluppa in prima persona, tranne la Prefazione, ed è costantemente punteggiata dal sospetto della menzogna, dall’ombra della mistificazione. Svevo azzera il patto convenzionale tra narratore e lettore; quest’ultimo è sempre costretto a muoversi senza il conforto di una guida nel dedalo fatto “di bugie e di verità” talmente mischiate tra di loro da dare vita a quella interiorità organica che si chiama, appunto, la coscienza di Zeno.
Zeno è il personaggio principale e la voce narrante ed è un abile prestidigitatore nell’alternare le proprie riflessioni sulle azioni compiute e la dialettica tra l’apparenza e la sostanza, tra l’esperienza, dominata da quello che Pirandello chiama il caso, e la vita nella sua complessità fatta di ragione e di emozioni.
Un elemento che emerge e che fa pensare alla decostruzione dell’universo letterario tradizionale è la stratificazione dei piani temporali: alla nascita poetica del gioco complesso contribuisce il tempo, visto che il presente del narratore s’intreccia con il passato del personaggio. Il tempo si trasforma in fattore ciclico e misto, causa della vestizione teatrale della realtà e della rivelazione del trucco scenico. Si procede per spirale di date.
Si può, quindi, parlare di romanzo umoristico che si fonda sulla destrutturazione del racconto classico e sull’eroe problematico alla ricerca di valori in un universo che li ha tutti polverizzati.
La prima idea dell’Ulisse risale al 1905; esce a puntate nel 1918 sulla “Little review” e definitivamente nel 1922, un anno prima della Coscienza.
È diviso in tre parti per un totale di 18 episodi privi di titolo.
È la cronaca di una giornata, quella del 16 giugno 1904, vissuta da tre protagonisti: Stephen Dedalus, il giovane intellettuale ribelle (rappresenta Telemaco in cerca del padre); Leopold Bloom, un ebreo dublinese agente pubblicitario (nella cartografia del plot, l’uomo medio, un padre in cerca di un figlio che si sostituisca al suo morto subito dopo la nascita, un Ulisse moderno che naviga per le vie di Dublino); Molly, sua moglie, sempre infedele, una Penelope rovesciata.
A ogni episodio corrisponde un luogo e un’ora, un organo del corpo umano, un’arte, un colore, un simbolo, una determinazione stilistica. È un modo per riassumere le parti del cosmo, della dimensione materica, del mondo fenomenico: le componenti del corpo danno vita all’uomo, alle altre corrisponde l’universo, la varietà degli stili e le possibilità della parola.
In effetti, lo schema richiama, oltre che il poema omerico sottolineato dall’autore e dai critici che l’hanno decodificato, tutti quei racconti e quei miti fondati sul rapporto tra il viaggio e il labirinto, dal mito di Teseo e Arianna ai nostoi, al sogno di Parmenide legato alla divinità della giustizia, la Dike enunciatrice delle due vie che sono davanti all’uomo. D’altra parte anche nell’opera di Joyce ci sono molte versioni di Arianna (la serie di narratori solitamente inaffidabili che sostituiscono il narratore scomparso) e la ricerca di una serie di valori che si allontanano di volta in volta come fossero ombre.
Il romanzo va dunque interpretato come allegoria del travaglio dell’uomo contemporaneo e, nello stesso tempo, la rappresentazione della società moderna attraverso l’immagine di Dublino.
Umberto Eco parla dell’Ulysses come allegoria della città celeste e interpreta i tre personaggi principali come simboli della Santa Trinità: Bloom come il padre, Stephen come il figlio, Molly come lo spirito santo. E potremmo continuare con i tentativi di decodificare, magari arrivando a sostenere che Joyce mantiene nella sua opera anche un carattere della tradizione del romanzo ottocentesco: quella che eleva la città raccontata al livello non solo di protagonista delle storie, ma a quello di essere vivente, di corpo umano come la Milano del Manzoni, la Londra di Dickens, la Parigi di Hugo. Oppure potremmo analizzare i paesaggi urbani e vederli come la premessa di certe atmosfere allucinate proprie della metafisica pittorica. E, ancora, potremmo notare le funzioni simboliche che il mare e le torri suggeriscono a chi ha cominciato a prendere dimestichezza con la letteratura psicanalitica (nel 1911, proprio a Trieste, Joyce aveva incontrato il dottor Nichel Stekel grazie a Italo Svevo).
Innovativa anche la struttura del narrare: ogni personaggio si presenta da solo attraverso il monologo interiore e il flusso di coscienza. Anche qui, come in Svevo, emerge il gioco teatrale realizzato attraverso la contaminazione tra palcoscenico e quinte, tra recitazione e luogo della preparazione del trucco.
Il romanzo da di Joyce, per le sue coincidenze con il periodo della frequentazione e della conoscenza con Svevo, è stato da più parti giudicato un lavoro triste, ricco di livori, imprigionato in una gabbia filosofica di tipo esistenzialista formata da parole che, nella loro “liquidità”, avrebbero contribuito a dare l’idea di un castello feudale diviso dai nemici da un profondo fossato. E invece, proprio come dice Virginia Woolf, “Joyce era interessato a rivelare a tutti i costi le vibrazioni di quella fiamma più interiore che segna tutti i messaggi attraverso la mente” . Per questo il romanzo ha un carattere così spiccatamente umoristico non solo per le amplificazioni fantastiche e verbali, per gli esempi buffoneschi che segnano qua e là la pagina, ma anche per la particolare intensità nella ripetizione dei motteggi e nelle chiose che giungono fin quasi alla caricatura. Indicative sono in particolare le prime pagine dense di richiami a una cultura, quella cattolica, che viene ad assumere il ruolo del camuffamento di Stephen.
Una torma di eresie in fuga con le mitrie a sghimbescio: Fozio e la genia di schernitori uno dei quali era Mulligan, e Ario, che aveva battagliato tutta la vita sulla consustanzialità del Figlio col Padre, e Valentino, che spregiava il corpo terreno del Cristo, e il sottile eresiarca africano Sabellio che sosteneva che il Padre era Figlio di Se Stesso. Parole che Mulligan aveva detto un minuto prima per canzonatura all’estraneo. Vana canzonatura. Il vuoto incombe certamente su tutti quelli che tessono il vento: minacciati, disarmati e sconfitti dagli angeli della chiesa schierati in battaglia, l’oste armato di Michele che la difende sempre nell’ora del conflitto con lance e usberghi.
-Bene, bravo! Applausi prolungati. Zut! Nom de Dieu! (Ulisse, p.22)

I temi della produzione di Joyce sono, inoltre, sempre gli stessi dalle prime opere all’ultima come dimostrano anche alcune parole chiave che si ripetono: il crepuscolo, l’aria presa in un palpito lento; la luce, l’aria, gli odori. Quasi un’architettura letteraria legata ai sensi in modo particolare quelli dell’olfatto, della vista, dell’udito.
La comparazione evidenzia che La coscienza rappresenta in Italia quel valore che l’Ulysses assume per la letteratura in lingua inglese. A dominare il gioco letterario, la dimensione composita della trama e della dialettica delle voci narranti è l’ironia, il senso umoristico.

La scelta del timbro musicale dell’ironia è la prova che Zeno – Svevo vede la vita da una posizione acrobatica e riesce a determinare, proprio attraverso questo schema tecnico, il rapporto dialettico tra il suo vero e il suo “scenico”:
La scommessa si dimostrò perniciosissima. Non ero più alternativamente padrone ma soltanto schiavo e di quell’ Olivi che non amavo! Fumai subito. Poi pensai di truffarlo continuando a fumare di nascosto. Ma allora perché aver fatta quella scommessa? Corsi allora in cerca di una data che stesse in bella relazione con la data della scommessa per fumare un’ultima sigaretta che così in certo modo avrei potuto figurarmi fosse registrata anche dall’Olivi stesso. Ma la ribellione continuava e a forza di fumare arrivavo all’affanno. Per liberarmi da quel peso andai dall’Olivi e mi confessai. Il vecchio incassò sorridendo il denaro e, subito, trasse di tasca un grosso sigaro che accese e fumò con grande voluttà. Non ebbi mai un dubbio che egli non avesse tenuta la scommessa. Si capisce che gli altri sono fatti altrimenti di me. (La coscienza di Zeno, p.17)

Infine, è presente e riconoscibile anche un deciso gusto caricaturale specialmente quando dipinge i caratteri di quel teatrino della crudeltà che è la famiglia e l’ambiente piccolo e medio borghese. Alcune atmosfere ricordano i passaggi del Fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello.
Ero guarito e non volevo accorgermene! Era una vera cecità questa: avevo appreso che avevo desiderato di aver portato via la moglie – mia madre! – a mio padre e non mi sentivo guarito? Inaudita ostinazione la mia: però il dottore a metteva che sarei guarito ancora meglio quando fosse finita la mia rieducazione in seguito alla quale mi sarei abituato a considerare quelle cose (il desiderio di uccidere il padre e di baciare la propria madre) come cose innocentissime per le quali non c’era da soffrire di rimorsi perché avvenivano frequentemente nelle migliori famiglie. ( La coscienza di Zeno, p.387)

“L’humour è, quindi, la chiave della poetica sia di Joyce sia di Svevo. Un humour sovvertitore della lingua e dei significanti in Joyce; un humour della parola, della lingua-conversazione, in Svevo.” Ma la cosa più significativa è che i due autori sembrano essere legati dalla volontà di costruire narrazioni in cui il tema del viaggio ha un suo riscontro nel convulso movimento interiore, nel muoversi assiduo e faticoso della immaginazione. È il cammino della coscienza, della psiche ciò che interessa descrivere di contro alla staticità fisica, all’immobilismo che paralizza nel trovare soluzioni e scelte. Joyce e Svevo sono entrambi i cantori della paralisi e della inettitudine dell’uomo contemporaneo.

Categoria: Rivista n° 7 01/2019 | RSS 2.0

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